LEZIONE V. LEGGI CAUSALI PSICOLOGICHE E FISICHE
La concezione tradizionale della causa e dell'effetto è una di quelle che la scienza moderna mostra essere fondamentalmente erronea e che richiede di essere sostituita da una nozione interamente differente, quella di leggi del cambiamento. Nella concezione tradizionale un particolare evento A causava un particolare evento B e con ciò si implicava che potesse essere scoperto, dato un evento B, qualche precedente evento A che abbia una relazione con esso tale che:
(1) Ogni volta che occorre A, esso è seguito da B;
(2) In questa sequenza vi è qualcosa di “necessario” non il mero succedere de facto di B ad A.
Il secondo punto è esemplificato dalla vecchia discussione circa il problema di stabilire se si possa dire che il giorno è la causa della notte, fondandosi sul fatto che il giorno segue sempre la notte. La risposta ortodossa era che il giorno non può essere detto causa della notte, perché non sarebbe seguito dalla notte se la rotazione terrestre cessasse o piuttosto fosse così lenta che una completa rotazione durasse un anno. Una causa, si sosteneva, deve essere tale che non vi siano circostanze concepibili in cui essa non sia seguita dal suo effetto.
È un dato di fatto che sequenze come quelle cercate da chi crede nella forma tradizionale di causazione non sono ancora state trovate in natura. Ogni cosa in natura è apparentemente in uno stato di continuo cambiamento [1], sicché ciò che chiamiamo “evento” si rivela essere in realtà un processo. Se questo evento deve causare un altro evento i due avranno da essere contigui nel tempo; infatti se ci fosse qualche intervallo fra loro qualcosa potrebbe accadere durante tale intervallo che impedisca all'effetto di manifestarsi. Causa ed effetto, perciò, saranno processi temporalmente contigui. È difficile credere, in ogni caso in cui le leggi fisiche sono implicate, che la prima parte del processo che è la causa possa fare qualche differenza sull'effetto, finché la rimanente parte del processo che è la causa rimanga inalterato. Supponiamo, per esempio, che un uomo muoia avvelenato dall'arsenico, diciamo che il suo assumere l'arsenico è stata la causa della morte. Ma chiaramente il processo con il quale si procura l'arsenico è irrilevante: tutto ciò che era successo prima che lo ingoiasse può essere ignorato, poiché non può alterare l'effetto se non nella misura in cui altera la sua condizione nel momento di assumere la dose. Ma possiamo andare oltre: l'ingestione dell'arsenico può non essere realmente la causa prossima della morte, poiché l'uomo può essere stato colpito sulla testa immediatamente dopo aver assunto la dose e quindi non sarebbe stato l'arsenico a ucciderlo. L'arsenico produce certi cambiamenti fisiologici che richiedono un tempo finito prima di concludersi con la morte. La prima parte di questi cambiamenti possono essere esclusi nello stesso modo in cui possono essere esclusi i processi con i quali ci si è procurati l'arsenico. Procedendo in questo modo, possiamo abbreviare sempre più il processo che abbiamo chiamato causa. In maniera simile possiamo abbreviare l'effetto. Può accadere che immediatamente dopo la morte dell'uomo il suo corpo sia fatto a pezzi da una bomba. Non possiamo dire cosa succederà dopo la morte dell'uomo sapendo solamente che egli è morto per avvelenamento da arsenico. Così se dobbiamo considerare la causa un evento e l'effetto un altro, entrambi possono essere abbreviati indefinitamente. Il risultato è che noi abbiamo, come espressione della nostra legge causale, soltanto una certa direzione del cambiamento in ogni momento. Qui siamo condotti alle equazioni differenziali che esprimono le leggi causali. Una legge fisica non dice “A sarà seguito da B”, ma ci dice quale accelerazione avrà una particella sotto certe circostanze, i.e. ci dice come il moto della particella sta cambiando in ogni momento, non dove la particella sarà in qualche momento futuro.
Le leggi espresse nelle equazioni differenziali possono essere esatte, ma non si può sapere se così sono. Tutto ciò che possiamo conoscere empiricamente è approssimato e suscettibile di eccezione; le leggi esatte che sono assunte in fisica sono note essere vicino alla verità, ma non si sa se la loro formulazione sia esatta. Le leggi che conosciamo effettivamente in maniera empirica hanno la forma delle leggi causali tradizionali, ad eccezione di quelle che non sono da considerare come universali o necessarie. “L'assunzione dell'arsenico è seguita dalla morte” è una buona generalizzazione empirica; può avere eccezioni, ma esse saranno rare. Al contrario delle leggi professate esatte della fisica, tali generalizzazioni empiriche hanno il vantaggio di riguardare i fenomeni osservabili. Non possiamo osservare gli infinitesimali, sia nel tempo che nello spazio; non sappiamo neanche se il tempo e lo spazio siano infinitamente divisibili. Perciò le generalizzazioni approssimate empiriche hanno un posto definito nella scienza, nonostante non siano esatte o universali. Esse costituiscono i dati per leggi più esatte, e le ragioni per credere che esse siano usualmente vere sono più forti delle ragioni per credere che le leggi più esatte siano sempre vere.
La scienza parte, perciò, da generalizzazioni della forma “A è solitamente seguito da B”. E' in questo modo che ci avviciniamo alla legge causale di tipo tradizionale. Può accadere che in ogni particolare esempio A sia sempre seguito da B ma noi non possiamo saperlo poiché non possiamo avere sott'occhio tutte le circostanze perfettamente possibili che farebbero fallire la sequenza o sapere che nessuna di esse occorrerà realmente. Se comunque conosciamo un numero ampio di casi in cui A è seguito da B, e pochi o nessuno in cui la sequenza fallisce, saremmo praticamente giustificati nell'affermare che “A causa B”, stabilendo di non unire alla nozione di causa qualcuna delle superstizioni metafisiche che si sono raccolte intorno alla parola.
C'è un altro punto, oltre alla mancanza di universalità e necessità, che è importante comprendere circa le cause nel senso di cui sopra, ed è la mancanza di unicità. Si assume generalmente che, dato ogni evento, ci sia un fenomeno che sia la causa dell'evento in questione. Questo sembra essere solamente un errore. Causa, nel solo senso in cui può essere praticamente applicato, significa “antecedente quasi invariabile”. Non possiamo praticamente ottenere un antecedente che sia del tutto invariabile, infatti ciò richiederebbe che si prendesse in considerazione l'intero universo, poiché qualcosa di cui non si è tenuto conto può impedire l'effetto atteso. Non possiamo distinguere fra gli antecedenti quasi invariabili uno che sia la causa e altri che siano mere concomitanze: il tentativo di farlo dipende da una nozione di causa che è derivata dalla volontà, e la volontà (come vedremo più avanti) non è affatto il tipo di cosa che generlamente si suppone che sia, e neppure vi è qualche ragione per pensare che nel mondo fisico vi sia qualcosa anche solo lontanamente analogo a ciò che si suppone sia la volontà. Se potessimo scoprire un antecedente, e uno solo, che sia assolutamente invariabile, potremmo chiamarlo la causa senza introdurre alcuna nozione derivata da idee erronee circa la volontà. Ma di fatto non possiamo trovare alcun antecedente che si sappia essere assolutamente invariabile, e possiamo trovarne molti che sono solo approssimativamente tali. Ad esempio gli operai lasciano la fabbrica per il pranzo quando la campana suona il mezzogiorno. Si può dire che la campana sia la causa della loro partenza. Ma innumerevoli altre campane in altre fabbriche, che pure suonano sempre a mezzogiorno, hanno ben il diritto di essere chiamate la causa. Così ogni evento ha molti antecedenti quasi invariabili, e perciò molti antecedenti che possono essere detti essere la sua causa.
Le leggi della fisica tradizionale, nella forma in cui concernono i movimenti della materia o dell'elettricità, hanno una semplicità apparente che in qualche modo nasconde il carattere empirico di ciò che esse asseriscono. Un pezzo di materia, così come è conosciuto empiricamente, non è una singola cosa esistente, ma un sistema di cose esistenti. Quando più persone simultaneamente vedono lo stesso tavolo, essi vedono tutti cose differenti; perciò “il” tavolo, che si suppone sia visto da tutti loro, può essere sia una ipotesi che una costruzione. “Il” tavolo deve essere neutro tra i differenti osservatori: non favorisce l'aspetto visto da un uomo a spese di quello visto da un altro. È naturale, anche se secondo me sbagliato, guardare al tavolo “reale” come alla causa comune di tutti gli aspetti che il tavolo presenta (come si dice) ai differenti osservatori. Ma perché dovremmo supporre che vi sia qualche causa comune a tutti questi aspetti? Come abbiamo appena visto la nozione di “causa” non è così affidabile da permetterci di inferire l'esistenza di qualcosa che per la sua propria natura non può mai essere osservato.
Invece di cercare una fonte imparziale, possiamo assicurarci la neutralità tramite l'equa rappresentazione di tutte le parti. Invece che supporre che vi sia qualche causa sconosciuta, il tavolo “reale”, dietro le differenti sensazioni di coloro che sono detti vedere il tavolo, possiamo considerare l'intero insieme di quelle sensazioni (possibilmente con certi altri particolari) come se fosse realmente il tavolo. Cioé a dire, il tavolo che è neutro fra differenti osservatori (attuali e possibili) è l'insieme di tutti quei particolari che sarebbero naturalmente chiamati “aspetti” del tavolo da differenti punti di vista. (Questa è una prima approssimazione, modificata successivamente).
Si potrebbe dire: se non vi è un individuo esistente che sia la fonte di tutti questi “aspetti”, come possono essere connessi? La risposta è semplice: esattamente come lo sarebbero se vi fosse un individuo esistente. In ogni caso il supposto tavolo “reale” che sottostà alle sue apparenze non è esso stesso percepito, ma inferito, e il problema di stabilire se un tale o tale altro particolare sia un “aspetto” di quel tavolo è da decidersi tramite la connessione del particolare in questione con uno o più particolari con cui il tavolo è definito. Cioé a dire, anche se assumiamo un tavolo “reale” i particolari che sono suoi aspetti sono da riunire tramite le relazioni reciproche, non tramite la loro relazione con esso, poiché il tavolo reale è meramente inferito dai suoi aspetti. Pertanto dobbiamo solo notare come essi siano interconnessi e assumere tale collezione senza presupporre qualche tavolo “reale” distinto da essa. Quando persone differenti guardano quello che chiamano lo stesso tavolo, vedono cose che non sono perfettamente identiche, a motivo dei differenti punti di vista, ma che sono in grado di essere sufficientemente descritti con le stesse parole, nella misura in cui non si ricerca una grande accuratezza o precisione. Questi particolari approssimativamente simili sono raggruppati primariamente dalla loro somiglianza e, più correttamente, dal fatto che sono interrelati per lo più in accordo alle leggi della prospettiva e di riflessione e diffrazione della luce. Io propongo che, in prima approssimazione, questi particolari, con altri che non sono percepiti, siano unitamente il tavolo; e che una definizione simile si applichi a tutti gli oggetti fisici [2]
Al fine di eliminare il riferimento alle nostre percezioni, che introduce suggestioni psicologiche irrilevanti, fornirò un esempio differente, cioé la fotografia astronomica. Una lastra fotografica esposta in una notte chiara riproduce l'apparenza della porzione di cielo interessata, con più o meno stelle a seconda del potere del telescopio usato. Ogni singola stella che viene fotografata produce il suo effetto separato sulla lastra, proprio come farebbe su noi stessi se stessimo guardando il cielo. Se assumiamo, come la scienza normalmente fa, la continuità dei processi fisici, siamo costretti a concludere che, nel luogo dove si trova la lastra, e in tutti i luoghi tra esso e una stella fotografata, qualcosa è avvenuto che è correlato con la stella in modo particolare. Nei giorni in cui l'etere era messo meno in dubbio, avremmo detto che ciò che avveniva era un certo genere di vibrazione transversale dell'etere. Ma non è necessario o desiderabile essere così espliciti: tutto ciò che dobbiamo dire è che qualcosa succede che è in special modo connesso con la stella in questione. Dev'essere qualcosa di specialmente connesso con quella stella, poiché quella stella produce il suo proprio effetto particolare sulla lastra. Pertanto si deve trattare della fine di un processo che parte dalla stella e si irradia tutt'intorno, in parte per generali motivi di continuità, in parte per il fatto che la luce si trasmette a una ben definita velocità. Così arriviamo alla conclusione che, se una certa stella è visibile in un certo posto, o se in quel posto può essere fotografata da una lastra sufficientemente sensibile, qualcosa avviene che è in special modo connesso con la stella. Perciò in ogni posto in ogni istante una miriade di cose devono avvenire, cioé, almeno una per ogni oggetto fisico che può essere visto o fotografato da quel luogo. Possiamo classificare tali avvenimenti sulla base dei due principi:
(1) Possiamo riunire assieme tutti gli avvenimenti in un singolo luogo, come è fatto dalla fotografia per quanto riguarda la luce;
(2) Possiamo riunire assieme tutti gli avvenimenti, in luoghi differenti, che sono connessi nel modo che il senso comune considera come essere dovuto al loro essere emanazione di un oggetto.
Così, per tornare alle stelle, possiamo riunire o
(1) tutte le apparenze di differenti stelle in un unico posto o
(2) tutte la apparenze di una data stella in posti differenti.
Ma quando parlo di “apparenze”, lo faccio solo per brevità: non intendo qualcosa che debba “apparire” a qualcuno, ma solo l'avvenimento, qualsiasi sia, che è correlato, nel luogo in questione, con un dato oggetto fisico (secondo la vecchia teoria ortodossa, si tratterebbe di una vibrazione trasversale dell'etere). Come le differenti apparenze del tavolo a un numero di osservatori simultanei, i differenti particolari che appartengono a un oggetto fisico sono da riunire assieme in base alla continuità e alle leggi intrinseche di correlazione, non in base alla loro supposta relazione causale con un qualcosa di sconosciuto assunto come esistente e detto pezzo di materia, che in sé potrebbe essere una cosa meramente metafisica e non necessaria. Un pezzo di materia, in accordo con la definizione che propongo, è, in prima approssimazione, [3] l'insieme di quei particolari correlati che sono normalmente considerati come sue apparenze o effetti in luoghi differenti. È desiderabile qualche ulteriore elaborazione, ma possiamo ignorare questo fatto per ora. Vi ritornerò alla fine di questa lezione.
In accordo con il punto di vista che sto proponendo, un oggetto fisico o pezzo di materia è l'insieme di tutti quei particolari intercorrelati che sarebbero considerati dal senso comune come suoi effetti o apparenze in diversi luoghi. D'altro canto, tutti gli avvenimenti in un dato posto rappresentano ciò che il senso comune considererebbe come le apparenze di un numero di differenti oggetti come visti da quel posto. Tutti gli avvenimenti in un luogo possono essere considerati come la visione dell'universo da quel dato luogo. Chiamerò la visione dell'universo da un dato luogo una “prospettiva”. Un fotografia rappresenta una prospettiva. D'altro canto, se le fotografia delle stelle fossero prese in tutti i luoghi dello spazio, e in tutte quelle fotografie una certa stella, diciamo Sirio, fosse scelta ovunque apaia, tutte le differenti apparenze di Siorio, prese insieme, rappresenterebbero Sirio. Per la comprensione della differenza tra psicologia e fisica è vitale comprendere questi due modi di classificare i particolari, e cioé:
(1) Secondo il luogo dove occorrono;
(2) Secondo il sistema di correlare i particolari in luoghi differenti ai quali appartengono, essendo tale sistema definito come oggetto fisico.
Dato un sistema di particolari che sia un oggetto fisico, definirò quel particolare del sistema che è in un dato luogo (se è in qualche luogo) come l'”apparenza di quell'oggetto in quel luogo”.
Quando l'apparenza di un oggetto in un dato luogo cambia succede che accada una delle due cose. Le due possibilità possono essere illustrate tramite un esempio. Siete in una stanza con un uomo che vedete: potete cessare di vederlo sia chiudendo gli occhi o perché egli esce dalla stanza. Nel primo caso la sua apparenza per le altre persone rimane inalterata; nel secondo, la sua apparenza cambia da tutti i luoghi. Nel primo caso dite che non è stato lui a cambiare, ma i vostri occhi; nel secondo dite che egli è cambiato. Generalizzando, distinguiamo:
(1) Casi in cui solo certe apparenze dell'oggetto cambiano, mentre altre, specialmente quelle vicinissime all'oggetto, non cambiano;
(2) Casi dove tutte, o quasi tutte, le apparenze dell'oggetto sono sottoposte a un cambiamento correlato ad esse.
Nel primo caso, il cambiamento è attribuito al medium tra l'oggetto e il luogo; nel secondo è attribuito all'oggetto stesso. [4]
È la frequenza del secondo tipo di cambiamento, e la natura comparativamente più semplice delle leggi che governano le alterazioni simultanee delle apparenze in tali casi che hanno reso possibile trattare un oggetto fisico come una singola cosa, trascurando il fatto che esso è un sistema di particolari. Quando un certo numero di persone in un teatro guardano un attore i cambiamenti nelle loro rispettive prospettive sono così simili e così strettamente correlate che tutte sono comunemente considerate identiche fra loro e con i cambiamenti dell'attore stesso. Fintanto che tutti i cambiamenti delle apparenze di un corpo sono così correlati non vi è, prima facie, bisogno di smembrare il sistema delle apparenze, o di sostenere che il corpo in questione non è in realtà una sola cosa ma un insieme di particolari correlati. È specialmente e primariamente di tali cambiamenti che la fisica si occupa, i.e. essa si occupa primariamente di processi in cui l'unità di un oggetto fisico abbisogna di essere rotta poiché tutte le sue apparenze cambiano simultaneamente secondo la stessa legge – o, se non tutti, almeno quelli osservabili in tutti i luoghi sufficientemente vicini all'oggetto, con crescente precisione con l'avvicinarsi all'oggetto.
I cambiamenti nelle apparenze di un oggetto che sono dovute a cambiamenti intervenuti nel medium non riguardano, o riguardano molto lievemente, le apparenze da luoghi vicini all'oggetto. Se le apparenze da luoghi sufficientemente vicini sono immutate, o cambiano in misura decrescente tendendo a zero, di solito si scopre che i cambiamenti sono dovuti a cambiamenti negli oggetti che sono tra l'oggetto in questione e i posti da cui la sua apparenza è cambiata apprezzabilmente. Così la fisica è in grado di ridurre le leggi di molti cambiamenti dei quali si occupa in cambiamenti negli oggetti fisici, ed esporre la maggiorparte delle sue leggi fondamentali in termini di materia. È solo in quei casi in cui l'unità del sistema delle apparenze costituenti un pezzo di materia deve essere smembrata che l'enunciato circa ciò che sta accadendo non può essere costituito esclusivamente in termini di materia. Tutta la psicologia, come vedremo, è inclusa in questi casi; di qui la loro importanza per noi.
Possiamo ora iniziare a capire una delle differenze fondamentali fra la fisica e la psicologia. La fisica tratta come un'unità l'intero sistema delle apparenze di un pezzo di materia, mentre la psicologia è interessata ad alcune di queste apparenze. Limitandoci per il momento alla psicologia della percezione, osserviamo che le percezioni sono certe apparenze degli oggetti fisici. Dal punto di vista che abbiamo adottato fin qui, possiamo definirle come le apparenze di oggetti in luoghi dove gli organi di senso e le parti adatte del sistema nervoso formano parte del medium. Proprio come una lastra fotografica riceve una impressione differente di un gruppo di stelle quando un telescopio è parte del medium, così un cervello riceve una differente impressione quando un occhio e un nervo ottico è una parte del medium. Una impressione dovuta a questo tipo di medium è chiamata percezione, ed è interessante per la psicologia di per sé, non solo come uno degli elementi dell'insieme di particolari correlati che è l'oggetto fisico di cui (come diciamo) abbiamo una percezione.
Abbiamo parlato prima di due modi di classificare i particolari. Un modo raggruppa insieme le apparenze comunemente cosiderate come un dato oggetto da differenti luoghi; questa è, parlando con ampiezza, il modo della fisica, che porta alla costruzione degli oggetti fisici come insiemi di tali apparenze. L'altro modo mette insieme le apparenze di oggetti differenti da un certo luogo, essendo il risultato ciò che chiamiamo una prospettiva. Nel caso particolare dove il luogo coinvolto è un cervello umano, la prospettiva che appartiene al posto consiste di tutte le percezioni di un certo uomo in un certo periodo. La classificazione tramite prospettive è rilevante per la psicologia, ed è essenziale nel definire cosa intendiamo con mente.
Non voglio suggerire che il modo in cui ho definito le percezioni sia l'unico possibile, o anche il migliore. È il modo che sorge naturalmente dal soggetto presente. Ma quando ci avviciniamo alla psicologia da un punto di vista più introspettivo, dobbiamo distinguere le sensazioni e le percezioni, se possibile, da altri avvenimenti mentali, se ve ne è qualcuno. Dobbiamo anche considerare gli effetti psicologici delle sensazioni, come opposti alle loro cause fisiche e correlate. Questi problemi sono totalmente distinti da quelli che ci riguardano nella presente lezione, e mi occuperò di essi più avanti.
È chiaro che la psicologia riguarda essenzialmente con particolari effettivi, non solamente con sistemi di particolari. In ciò è differente dalla fisica, che, parlando con ampiezza, riguarda i casi in cui tutti i particolari che costituiscono un oggetto fisico possono essere trattati come una singola unità causale, o piuttosto i particolari che sono sufficientemente vicini all'oggetto di cui sono apparenze possono essere trattati in questo modo. Le leggi che la fisica cerca possono, parlando con ampiezza, essere asserite trattando tali sistemi di particolari come unità causali. Le leggi che cerca la psicologia non possono essere così espresse, poiché i particolari stessi sono ciò che interessa lo psicologo. Questa è una delle differenze fondamentali tra la fisica e la psicologia; e renderla chiara è stato lo scopo principale di questa lezione.
Concluderò con un tentativo di fornire una definizione più precisa di pezzo di materia. Le apparenze di un pezzo di materia da differenti luoghi cambia parzialmente in accordo con leggi intrinseche (le leggi della prospettiva, nel caso della forma visiva), in parte in accordo con la natura del medium - nebbia, occhiali blu, telescopi, microscopi, organi di senso, etc. Avvicinandoci all'oggetto l'effetto del medium diminuisce. In un senso molto generale, tutte le leggi intrinseche di cambiamento dell'apparenza possono essere dette “leggi di prospettiva”. Data qualche apparenza di un oggetto, possiamo costruire ipoteticamente un certo sistema di apparenze a cui l'apparenza in questione apparterrebbe se solo le leggi della prospettiva fossero coinvolte. Se noi costruiamo questo ipotetico sistema per ogni apparenza dell'oggetto, il sistema corrispondente ad una data apparenza x sarà indipendente dovuta al mezzo intorno a x, e esprimerà tale distorsione come dovuta al medium tra x e l'oggetto. Così, nella misura in cui l'apparenza tramite cui il nostro ipotetico sistema è definito si avvicina all'oggetto, il sistema ipotetico delle apparenze definito tramite esso esprimerà sempre meno l'effetto del medium. I differenti insiemi di apparenza risultanti dal muovere x sempre più vicino all'oggetto porterà ad un insieme limite, il quale sarebbe quel sistema di apparenze che l'oggetto presenterebbe se operassero solo le leggi della prospettiva e il medium non esercitasse un'effetto distorcente. Questo insieme limite delle apparenze può essere definito, per gli scopi della fisica, come il pezzo di materia coinvolto.
NOTE ALLA LEZIONE V
[1] La teoria dei quanta afferma che la continuità è solo apparente. Se è così, potremmo teoricamente avere eventi che non siano processi. Ma in ciò che è direttamente osservabile c'è ancora continuità apparente, che giustifica per ora quanto detto nel testo.
[2] Si veda "Our Knowledge of the External World" (Allen & Unwin), capp. iii and iv.
[3] La definizione esatta di pezzo di materia come costruzione sarà data in seguito.
[4] L'applicazione di questa distinzione al moto fa sorgere complicazioni dovute alla relatività, ma per i nostri scopi ciò può essere per il momento ignorato.
-----------------------------------------------------------
Uno degli scopi principali di queste lezione è fornire argomenti alla credenza che la distinzione fra mente e materia non è così fondamentale come si suppone comunemente. Nella precedente lezione mi sono occupato del lato fisico di questo problema. Ho tentato di mostrare che ciò che chiamiamo oggetto materiale non è in se stesso una sostanza, ma un sistema di particolari analogo nella sua natura alle sensazioni, includendo spesso di fatto tra loro effettive sensazioni. In questo modo la sostanza di cui gli oggetti fisici sono composti è posta in relazione con la sostanza di cui è composta parte, almeno, della nostra vita mentale.
C'è, comunque, un compito che è ugualmente necessario alla nostra tesi, ed è quello di mostrare che la materia della nostra vita mentale è priva di molte qualità che si suppone comunemente abbia, e che non possiede nessuna proprietà che la rende incapace di far parte del mondo della materia. Nella presente lezione inizierò con gli argomenti a favore di questo punto di vista.
In corrispondenza della supposta dualità di materia e mente, vi sono, nella psicologia ortodossa, due modi di conoscere ciò che esiste. Uno di questi, la via della sensazione e della percezione esterna, si suppone fornisca i dati per la nostra conoscenza della materia, l'altro, detto “introspezione”, si suppone che fornisca i dati per la conoscenza dei nostri processi mentali. Al senso comune questa distinzione appare chiara e semplice. Quando vedete un amico avvicinarsi per la strada acquisite la conoscenza di un fatto esterno e fisico; quando vi rendete conto che siete felici di incontrarlo, acquisite la conoscenza di un fatto mentale. I sogni, le memorie e i pensieri, di cui siamo spesso consci, sono fatti mentali, e il processo tramite il quale diventiamo consapevoli di essi sembra differire dalla sensazione. Kant lo chiama “senso interiore”; talvolta se ne parla come di “coscienza del sé”; ma il suo nome più comune nella psicologia inglese moderna è “introspezione”. È questo supposto metodo di acquisire conoscenza dei nostri processi mentali che voglio analizzare ed esaminare in questa lezione.
Esporrò anzitutto la tesi che intenderò sostenere. Credo che la sostanza della nostra vita mentale, come opposta alle sue relazioni e alla sua struttura, consista interamente di sensazioni e immagini. Le sensazioni sono connesse con la materia nel modo che ho provato a spiegare nella lezione V, i.e. ognuna è un membro di un sistema che costituisce un certo oggetto fisico. Le immagini, sebbene usualmente abbiano certe caratteristiche, in special modo la mancanza di vividezza, che le distingue dalle sensazioni, non sono distinguibili invariabilmente, e non possono perciò essere definite da queste caratteristiche. Le immagini, come opposte alle sensazioni, possono solo essere definite a ragione della loro differente causazione: sono causate da una associazione con una sensazione, non da uno stimolo esterno al sistema nervoso – o forse si dovrebbe dire esterno al cervello se sono coinvolti gli animali più evoluti. L'occorrere di una sensazione o di una immagine non costituisce di per sé una conoscenza ma ogni sensazione o immagine può giungere ad essere conosciuta se le condizioni sono adatte. Quando una sensazione – come il sentire il rumore di un tuono – è normalmente correlato con sensazioni strettamente simili nei nostri vicini, la consideriamo come se ci fornisse una conoscenza del mondo esterno, poiché consideriamo l'intero insieme di sensazioni simili come dovute ad una causa esterna comune. Ma le immagini e le sensazioni corporeee non sono così correlate. Le sensazioni corporee possono essere correlate dalla fisiologia, e così prendere finalmente il loro posto tra le fonti della conoscenza del mondo fisico. Ma le immagini non possono essere adattate alle simultanee sensazioni e immagini degli altri. A parte le loro ipotetiche cause nel cervello, esse hanno una connessione causale con gli oggetti fisici, poiché sono copie di sensazioni passate; ma gli oggetti fisici con cui sono connessi sono nel passato, non nel presente. Queste immagini rimangono private in un senso in cui le sensazioni non lo sono. Una sensazione sembra fornirci la conoscenza di un oggetto fisico presente, mentre una immagine non lo fa, ad eccezione di quando coincide con un'allucinazione, e in questo caso la sembianza è ingannevole. Così l'intero contesto dei due avvenimenti è differenti. Ma in se stessi non differiscono profondamente e non vi è ragione di invocare due differenti modi di conoscere l'uno o di conoscere l'altro. Conseguentemente l'introspezione come genere separato di conoscenza scompare.
Sono stati soprattutto gli psicologi americani che hanno sviluppato le critiche all'introspezione. Inizierò riassumendo un articolo che mi sembra offrire una buona immagine dei loro argomenti, e cioé "The Case against Introspection," di Knight Dunlap ("Psychological Review," vol xix, No. 5, pp. 404-413, Settembre, 1912). Dopo qualche citazione storica, egli perviene a due moderni sostenitori dell'introspezione, Stout e James. Egli cita da Stout enunciati come il seguente: “Gli stati psichici come tali diventano oggetti solo quando ci occupiamo di essi in maniera introspettiva. Altrimenti essi non sono in se stessi oggetti, ma solo costituenti del processo tramite il quale gli oggetti sono riconosciuti” ("Manual," II ed., p. 134. La parola “riconosciuto” nella citazione di Dunlap dovrebbe essere “conosciuto”). “L'oggetto stesso non può mai essere identificato con la presente modificazione della coscienza individuale tramite cui è concepito” (ib. p. 60). Ciò deve essere vero anche quando stiamo pensando alle modificazioni della nostra stessa coscienza; tali modificazioni devono essere sempre almeno parzialmente distinte dall'esperienza conscia nella quale noi le pensiamo.
A questo punto voglio interrrompere il resoconto dell'articolo di Knight Dunlap al fine di fare qualche mia propria osservazione in riferimento alla precedente citazione di Stout. In primo luogo, la concezione di “stati psicologici” mi sembra che richieda una analisi di carattere distruttivo. Questa analisi la fornirò nelle successive lezioni per quanto riguarda la cognizione; l'ho già fornita per quanto riguarda il desiderio. In secondo luogo, il concepire degli “oggetti” dipende da un certo modo di vedere le cose riguardo alla cognizione che io credo sia totalmente fuorviante, e cioé, il punto di vista che discussi nella mia prima lezione in connessione a Brentano. Secondo questo punto di vista un singolo fatto cognitivo contiene sia il contenuto che l'oggetto, essendo il contenuto essenzialmente mentale, mentre l'oggetto è fisico eccetto che nell'introspezione e il pensiero astratto. Ho già criticato questo modo di vedere, e non ci tonerò ora, se non per dire che “il processo tramite cui gli oggetti sono conosciuti” è una frase ingannevole. Quando “vediamo un tavolo” come il senso comune direbbe, il tavolo come oggetto fisico non è l'”oggetto” (nel senso psicologico) della nostra percezione. La nostra percezione è costituita di sensazioni, immagini e credenze, ma il supposto “oggetto” è qualcosa di inferenziale, correlato esternamente, non legato logicamente con ciò che occorre in noi. Questo problema della natura dell'oggetto riguarda anche il modo in cui noi consideriamo l'auto-coscienza. Ovviamente un'”esperienza conscia” differisce da un oggetto fisico; perciò è naturale assumere che un pensiero o una percezione il cui oggetto sia un'esperienza conscia debba essere differente da un pensiero o percezione il cui oggetto sia un oggetto fisico. Ma se la relazione con l'oggetto è inferenziale ed esterna, come io sostengo, la differenza fra due pensieri ha poco a che vedere con la differenza fra i loro oggetti. E parlare della “presente modificazione della coscienza individuale tramite cui un oggetto è conosciuto” è suggerire che la cognizione degli oggetti sia un processo diretto, più intimamente legato all'oggetto di quanto io credo che sia. Tutti questi punti saranno ampiamente sviluppati quando perverremo all'analisi della conoscenza, ma è necessario esporli ora brevemente al fine di suggerire l'atmosfera in cui la nostra analisi dell'”introspezione” è portata avanti.
Un altro punto in cui le osservazioni di Stout mi sembrano suggerire ciò che io considero degli errori è il suo uso di “coscienza”. C'è un modo di vedere che prevale fra gli psicologi, il quale ha per effetto che si possa parlare di “una esperienza conscia” in maniera curiosamente duplice, significando da un lato una esperienza che è conscia di qualcosa e, d'altro canto un'esperienza che possiede una natura intrinseca la cui proprietà fondamentale è chiamata “coscienza”. Cioé a dire, un'”esperienza conscia” è caratterizzata da un lato dalla relazione al suo oggetto e dall'altro canto dall'essere composta di una certa sostanza peculiare, la sostanza della “coscienza”. E in molti autori vi è anche una terza confusione: un'”esperienza conscia”, in questo terzo senso è una esperienza di cui noi siamo consci. Tutti questi sensi, mi pare, abbisognano di essere chiariti separatamente. Secondo il mio modo di vedere le cose dire che un avvenimento è “conscio” di un altro significa asserire una relazione esterna e piuttosto remota fra essi. Posso fare un paragone con la relazione di zio e nipote. Un uomo diventa uno zio senza sforzo da parte sua, soltanto attraverso un avvenimento che accade altrove. In maniera simile, quando dite di essere “consci” di un tavolo, la questione se ciò sia realmente il caso non può essere decisa esaminando solo il vostro stato della mente: è necessario anche accertare se la vostra sensazione sta possedendo quei correlati che la passata esperienza ci fa supporre, o se il tavolo non sia in realtà un miraggio. Come ho spiegato nella mia prima lezione, non credo che vi sia una “sostanza” della coscienza, e anche che non vi sia una proprietà intrinseca per la quale un'esperienza “conscia” possa essere distinta dalle altre.
Dopo questi preliminari possiamo tornare all'articolo di Knight Dunlap. La sua critica a Stout è incentrata sulla difficoltà nel fornire un significato empirico a nozioni come “mente” o il “soggetto”; egli cita da Stout l'enunciato: “Il più importante svantaggio è che la mente nel guardare al suo proprio operato deve necessariamente avere la sua attenzione divisa tra due oggetti”, ed egli conclude: “Senza dubbio, Stout introduce qui illecitamente il concetto di osservatore singolo, e la sua introspezione non comporta la capacità di osservare questo osservatore; infatti il processo osservato e l'osservatore sono distinti” (p. 407). Le obiezioni ad ogni teoria che si fondi sull'osservatore singolo è stata considerata nella prima lezione, e sono state riconosciute cogenti. Perciò siccome la teoria di Stout dell'introspezione si fonda su questa assunzione, siamo costretti a rifiutarla. Ma è perfettamente possibile credere nell'introspezione senza supporre che vi sia un singolo osservatore.
La teoria dell'introspezione di William James, che Dunlap esamina subito dopo, non assume un singolo osservatore. Essa cambiò dopo la pubblicazione della sua "Psychology," conseguentemente al suo abbandono del dualismo fra pensiero e cose. Dunlap sintetizza la sua teoria in questo modo:
“I punti essenziali nello schema di James della coscienza sono soggetto, oggetto e una conoscenza dell'oggetto posseduta dal soggetto. La differenza fra lo schema di James e altri schemi comportanti gli stessi termini è che James considera soggetto e oggetto come la stessa cosa, in tempi differenti. Per soddisfare questa richiesta James suppone un regno dell'esistenza che dapprima chiamò “stati di coscienza” o “pensieri”, e più tardi, “esperienza pura”, includendo quest'ultimo termine sia i “pensieri” che le “conoscenze”. Questo schema, con tutta la sua magnificiente artificialità, James lo sostenne fino alla fine, facendo semplicemente cadere il termine coscienza e il dualismo tra il pensiero e la realtà esterna” (p. 409).
Egli aggiunge: “Il sistema di James in realtà consiste nella conoscenza che una successione di cose sono conosciute e che esse sono conosciute da qualcosa. Questo è tutto ciò che si può dire, oltre al fatto che le cose sono conosciute insieme e che chi conosce i differenti items è uno e lo stesso” (ib.).
Secondo me in questo enunciato, Dunlap concede più di quanto James fece nella sua ultima teoria. Non vedo ragione di supporre che “chi conosce i differenti items è uno e lo stesso”, e sono convinto che questa proposizione non possa essere verificata eccetto che tramite un'introspezione del tipo di quella rifiutata da Dunlap. Il primo di questi punti dovrà aspettare fino a quando perverremo all'analisi della credenza: il secondo può essere considerato ora. Il modo di vedere di Dunlap è che vi è un dualismo fra soggetto e oggetto ma che il soggetto non può mai divenire oggetto e perciò non vi è consapevolezza della consapevolezza. Egli dice nel discutere la sua opinione che l'introspezione rivela l'occorrenza di conoscenza: “Non può essere negata l'esistenza della cosa (conosciuta) che si presume sia conosciuta o osservata in questa sorta di “introspezione”. L'affermazione che il conoscere è osservabile è ciò che può essere negato. Il conoscere di certo esiste; ma la conoscenza del conoscere no” (p. 410). E ancora: “non si è mai consapevoli di una consapevolezza” (ib.). E nella pagina successica: “può sembrare paradossale dire che non si possa osservare il processo (o la relazione) di osservazione, eppure può considerarsi certo che vi sia un tale processo: ma non vi è reale inconsistenza nel dire ciò. Come sappiamo che esiste la consapevolezza? Essendo consapevoli di qualcosa. Nel termine “consapevolezza” non c'è niente che non sia espresso dall'enunciato “Io sono consapevole di un colore (o di qualsiasi altra cosa)””.
Ma il paradosso no può essere trattato con tanta leggerezza. L'enunciato “sono consapevole di un colore” è assunto da Knight Dunlap come conosciuto per vero, ma egli non spiega come perveniamo a conoscerlo. L'argomento contro di lui non è conclusivo, poiché egli potrebbe essere in grado di mostrare qualche valido modo di inferire la nostra consapevolezza. Ma egli non suggerisce questo modo. Non c'è niente di strano nell'ipotesi di esseri che siano consapevoli degli oggetti ma non della loro propria consapevolezza; è in effetti altamente probabile che i bambini piccoli e gli animali più evoluti siano tali. Ma tali esseri non possono pronunciare l'enunciato “sono consapevole di un colore”, come noi possiamo fare. Perciò abbiamo qualche conoscenza che ad essi manca. È necessario per la posizione di Knight Dunlap sostenere che questa conoscenza addizionale sia puramente inferenziale, ma egli non compie alcun tentativo di mostrare come l'inferenza sia possibile. Potrebbe, naturalmente, essere possibile, ma io non saprei come. Per me il fatto (da egli ammesso) che noi sappiamo che vi sia consapevolezza è quasi decisivo contro la sua teoria, ed in favore del punto di vista secondo cui noi possiamo essere consapevoli della consapevolezza.
Dunlap asserisce (per tornare a James) che la reale ragione per l'originale credenza di James nell'introspezione era la sua credenza in due tipi di oggetti, ossia, i pensieri e le cose. Egli suggerisce che sia stata solo una inconsistenza da parte di James l'aver aderito all'introspezione dopo aver abbandonato il dualismo di pensieri e cose. Io non sono completamente d'accordo con questo punto di vista, ma è difficile distinguere la differenza che riguarda l'introspezione dalla differenza circa la natura del conoscere. Dunlap suggerisce (p. 411) che ciò che è chiamato introspezione in realtà consista della consapevolezza di “immagini”, sensazioni viscerali e così via. Questa opinione, nella sua essenza, mi sembra fondata. Ma allora io sostengo che la conoscenza stessa consiste di tali costituenti opportunamente relati, e che nell'essere consapevoli di essi noi siamo talvolta consapevoli di esempi di conoscenza. Per questa ragione, per quanto sia d'accordo con la sua opinione circa quelli che sono oggetti di cui vi è consapevolezza, non posso interamente essere d'accordo con la sua conclusione circa l'impossibilità dell'introspezione.
I comportamentisti hanno contestato l'introspezione anche più vigorosamente di Knight Dunlap, e sono andati così in la da negare l'esistenza delle immagini. Ma io penso che essi abbiano confuso varie cose che sono comunemente confuse, e che è necessario fare qualche distinzione prima di poter arrivare a ciò che è vero o ciò che è falso nella critica all'introspezione.
Voglio distinguere tre domande separate ognuna delle quali può essere intesa quando ci chiediamo se l'introspezione sia una fonte di conoscenza. Le tre domande sono le seguenti:
(1) Possiamo osservare qualcosa circa noi stessi che non possiamo osservare a proposito di altre persone, o ogni cosa che possiamo osservare è pubblica, nel senso che un altro potrebbe osservarla se adeguatamente collocato?
(2) Tutto ciò che possiamo osservare obbedisce alle leggi della fisica e forma parte del mondo fisico, o possiamo osservare qualcosa che va oltre la fisica?
(3) Possiamo osservare qualcosa che differisce nella sua natura intrinseca dai costituenti del mondo fisico, o ogni cosa che possiamo osservare è composta di elementi intrinsecamente simili a quelli che costituiscono quella che è chiamata materia?
Ognuna di queste tre domande possono essere usate per definire l'introspezione. Favorirò l'introspezione nel senso della prima domanda, i.e. io penso che qualcuna delle cose che osserviamo non possano, nemmeno teoricamente, essere osservate da ognuno. Alla seconda domanda tenterò per ora di rispondere in favore dell'introspezione; penso che le immagini, nelle attuali condizioni della scienza, non possano essere ricondotte sotto le leggi causali della fisica, sebbene forse alla fine lo saranno. Alla terza domanda risponderò contro l'introspezione. Penso che l'osservazione non ci mostri niente che non sia composto di sensazioni e immagini, e che le immagini differiscono dalle sensazioni nelle loro leggi causali, non intrinsecamente. Mi occuperò rispettivamente di queste tre domande.
(1) Carattere pubblico o privato di ciò che è osservato. Limitandoci per ora alle sensazioni, troviamo che vi sono differenti gradi dell'essere pubblico a seconda dei differenti tipi di sensazioni. Se sentite un mal di denti quando le altre persone nella stanza non lo sentono, non siete in alcun modo sorpresi; ma se sentite lo scoppio di un tuono quando gli altri non lo sentono, iniziate ad essere allarmati circa la vostra condizione mentale. La vista e l'udito sono i più pubblici dei sensi; l'olfatto lo è solo un po' meno; il tatto, ancora meno, poiché due persone possono solo toccare lo stesso luogo successivamente, non simultaneamente. Il gusto ha un carattere semi-pubblico, poiché le persone sembrano esperire sensazioni gustative simili quando mangiano cibi simili; ma il carattere pubblico è incompleto poiché due persone non possono mangiare realmente lo stesso pezzo di cibo.
Ma quando passiamo alle sensazioni corporee – mal di testa, mal di denti, fame, sete, la sensazione di fatica, e così via – noi siamo del tutto al di fuori del carattere pubblico in una regione dove le altre persone possono dirci cosa sentono ma noi non possiamo direttamente osservare il loro sentire. Come risultato naturale di questo stato di cose, si è iniziato a pensare che i sensi pubblici ci diano la conoscenza del mondo esterno, mentre i sensi privati ci forniscono solo la conoscenza dei nostri propri corpi. Per quanto concerne la privatezza tutte le immagini, di qualsiasi tipo, esse appartengono con le sensazioni alla classe delle cose che ci forniscono conoscenza solo dei nostri corpi, i.e. ognuna è solo osservabile da un osservatore. Questa è la ragione per cui le immagini della vista e dell'udito sono più ovviamente differenti dalle sensazioni di vista e udito che le immagini di sensazioni corporee sono rispetto alle sensazioni corporee; ed è per questo che l'argomento in favore delle immagini è più convincente nei casi della vista e dell'udito che nel caso del discorso interiore.
L'intera distinzione di privatezza e carattere pubblico, comunque, fino a che ci limitiamo alle sensazioni, è una distinzione di grado, non di genere. Non ci sono due persone, vi sono buone ragioni empiriche per pensare, che abbiano esattamente sensazioni simili correlate allo stesso oggetto fisico nello stesso momento; d'altro canto, anche la più privata delle sensazioni ha correlazioni che dovrebbero teoricamente mettere in grado un altro osservatore di inferirle.
Che nessuna sensazione è mai completamente pubblica risulta dalle differenze del punto di vista. Due persone che guardano lo stesso tavolo non ne ricevono la stessa sensazione a motivo della prospettiva e del modo in cui cade la luce. Essi hanno soltanto sensazioni correlate. Due persone che ascoltano lo stesso suono non percepiscono esattamente la stessa cosa poiché uno è più vicino alla fonte del suono rispetto all'altro, uno ha un udito migliore dell'altro e così via. Questo carattere pubblico delle sensazioni non consiste nell'avere sensazioni esattamente simili, ma nell'avere sensazioni più o meno simili correlate in accordo con leggi accertabili. Le sensazioni che ci colpiscono come pubbliche sono quelle dove le sensazioni correlate sono molto simili e le correlazioni sono veramente facili da scoprire. Ma anche la più privata delle sensazioni ha correlazioni con cose che gli altri possono osseervare. Il dentista non osserva il vostro dolore, ma può vedere la cavità che lo procura, e potrebbe arguire che noi stiamo soffrendo anche se non glielo dicessimo. Questo fatto, comunque, non può essere usato, come Watson apparentemente vorrebbe, per escludere dalla scienza quelle osservazioni che sono private di un osservatore, poiché è tramite molte di tali osservazione che sono stabilite correlazioni e.g. fra il mal di denti e le cavità. Perciò il carattere privato non costituisce di per sé un dato non passibile di trattamento scientifico. A questo punto, l'argomento contro l'introspezione deve essere rifiutato.
(2) Tutto ciò che è osservabile obbedisce alle leggi della fisica? Perveniamo ora al secondo motivo di obiezione all'introspezione, e cioé, che i suoi dati non obbediscono alle leggi della fisica. Questa, sebbene meno enfatizzata è, io credo, una obiezione che è realmente sentita con più forza rispetto all'obiezione della privatezza. E otteniamo una definizione di introspezione più in armonia con l'uso se la definiamo come l'osservazione di dati non soggetti a leggi fisiche che se la definissimo tramite la privatezza. Nessuno considererebbe un uomo introspettivo poiché egli è conscio di avere mal di stomaco. Gli oppositori dell'introspezione non intendono negare il fatto ovvio che noi possiamo osservare le sensazioni corporee che gli altri non possono osservare. Per esempio Knight Dunlap sostiene che le immagini sono in realtà contrazioni muscolari [1], ed evidentemente sostiene che la nostra consapevolezza delle contrazioni muscolari ci sia data dall'introspezione. Io penso che si scoprirà che la caratteristica essenziale dei dati introspettivi, nel senso che ora ci riguarda, ha a che fare con la localizzazione: o non sono localizzati affatto, oppure sono localizzati, come le immagini visive, in un posto già fisicamente occupato da qualcosa che sarebbe inconsistente con essi se fossero considerati parte del mondo fisico. Se voi avete un'immagine visiva di un vostro amico che siede in una sedia che di fatto è vuota, non potete collocare l'immagine nel vostro corpo, perché essa è visiva, e neanche (come se si trattasse di un fenomeno fisico) nella sedia, poiché la sedia, come oggetto fisico, è vuota. Così sembra seguire che il mondo fisico non include tutto ciò di cui siamo consci, e quelle immagini, che sono dati introspettivi, sono da considerarsi, per ora, come non obbedienti alle leggi della fisica; questo è, penso, una delle principali ragioni per cui è stato fatto un tentativo di rifiutarle. Proverò a mostrare nella lezione VIII che le ragioni puramente empiriche per accettare le immagini sono travolgenti. Ma non possiamo essere certi che infine esse non verranno ricondotte alle leggi della fisica. Anche se questo accadrà, comunque, esse saranno ancora distinguibili dalle sensazioni a motivo delle loro leggi prossime, come i gas rimangono distinti dai corpi solidi.
Possiamo osservare qualcosa di intrinsecamente differente dalle sensazioni? Arriviamo ora alla nostra terza questione concernente l'introspezione. Si pensa comunemente che osservando la nostra interiorità possiamo notare ogni sorta di cose che sono radicalmente differenti dai costituenti del mondo fisico, e.g. pensieri, credenze, desideri, piaceri, dolori ed emozioni. La differenza tra la materia e la mente è accresciuta in parte enfatizzando questi supposti dati introspettivi, in parte con il supporre che la materia sia composta di atomi o elettroni o qualsiasi unità la fisica possa attualmente preferire. Contrariamente a quest'ultima supposizione io sostengo che i costituenti ultimi della materia non sono atomi o elettroni ma sensazioni e altre cose simili alle sensazioni per quanto riguarda l'estensione e la durata. Contrariamente al punto di vista secondo cui l'introspezione rivela un mondo mentale radicalmente differente dalle sensazioni propongo di sostenere che i pensieri, le credenze, i desideri, i piaceri, i dolori e le emozioni sono tutti costruiti a partire soltanto da sensazioni e immagini e che vi è ragione di pensare che le immagini non differiscano dalle sensazioni nel loro carattere intrinseco. Effettuiamo così un riavvicinamento di mente e materia e riduciamo i dati ultimi dell'introspezione (nel nostro secondo senso) a sole immagini. Su questa terzo modo di vedere il significato di introspezione, perciò, la nostra decisione è totalmente avversa.
Riguardo all'introspezione rimangono da considerare due punti. Il primo è quanto essa sia veritiera; il secondo è se, anche accettando che essa non rivela una sostanza diversa da quella rivelata da ciò che può essere chiamata percezione esterna, essa possa non rivelare differenti relazioni, e così acquisire anche la grande importanza che le è stata tradizionalmente assegnata.
Iniziamo con la veridicità dell'introspezione. È comune nell'ambito di certe scuole considerare la conoscenza dei nostri processi mentali come incomparabilmente più certa che la nostra conoscenza del mondo “esterno”; questo modo di vedere può essere trovato nella filosofia inglese che deriva da Hume, ed è presente, talvolta velatamente, in Kant e i suoi seguaci. Non sembra vi siano ragioni per accettare questo modo di vedere. Le nostre credenze spontanee e non sofisticate, sia circa noi stessi che circa il mondo esterno sono sempre estremamente avventate e molto suscettibili di essere erronee. L'acquisto di cautela è egualmente necessaria ed egualmente difficile in entrambe le direzioni. Non soltanto siamo spesso inconsapevoli di avere una credenza o un desiderio che esiste in noi; ma spesso sbagliamo realmente. La fallibilità dell'introspezione circa ciò che desideriamo è stata resa evidente dalla psicoanalisi; la sua fallibilità circa cò che è conosciuto è facilmente dimostrata. Una autobiografia, quando sia confrontata da un editore attento con l'evidenza documentale, è usualmente piena di errori compiuti del tutto inavvertitamente. Ognuno di noi confrontato con una lettera dimenticata scritta qualche anno prima rimarrà attonito nel trovare quanto più sciocche siano state le nostre opinioni rispetto a come ce le ricordiamo. E per quanto concerne l'analisi delle nostre operazioni mentali – credere, desiderare, volere, o altro – l'introspezione da sola vi fornisce un aiuto molto scarso: è necessario costruire ipotesi e testarne le conseguenze, proprio come facciamo nella scienza fisica. Perciò l'introspezione, sebbene sia fra le fonti della nostra conoscenza non è isolatamente in nessun grado più veritiera della percezione “esterna”.
Vengo ora alla nostra seconda domanda: l'introspezione ci fornisce materiali per la conoscenza di relazioni diverse da quelle a cui possiamo arrivare riflettendo circa la percezione esterna? È da considerarsi che l'essenza di ciò che è “mentale” consiste di relazioni, come ad esempio nella conoscenza, e che la nostra conoscenza concernente queste relazioni mentali essenziali è interamente derivata dall'introspezione. Se “conoscere” fosse una relazione inanalizzabile, questo modo di vedere sarebbe incontrovertibile, poiché chiaramente nessuna relazione forma parte del soggetto materia della fisica. Ma sembrerebbe che “conoscere” sia in realtà varie relazioni, tutte complesse. Perciò, finché esse non saranno state analizzate, il nosto problema attuale deve rimanere senza risposta. Vi ritornerò alla fine del presente corso di lezioni.
NOTE ALLA LEZIONE VI
[1] "Psychological Review," 1916, "Thought-Content and Feeling," p. 59. Vedi anche ib., 1912, "The Nature of Perceived Relations," dove egli dice: “”L'introspezione”, spogliata dalla suggestione mitologica dell'osservazione della coscienza, è in realtà l'osservazione di sensazioni corporee e di quelle che possono essere sentite” (p. 427).
---------------------------------------------------------LEZIONE VII. LA DEFINIZIONE DI PERCEZIONE
Nella lezione V abbiamo avuto ragione di credere che i costituenti ultimi [1] del mondo non abbiano le caratteristiche della mente o della materia come usualmente comprese: essi non sono oggetti solidi e persistenti che si muovono attraverso lo spazio, e neppure frammenti di “coscienza”. Trovammo due modi di raggruppare i particolari, uno in “cose” o “pezzi di materia”, l'altro in serie di “prospettive”, essendo ogni serie ciò che può essere chiamata una “biografia”. Prima di poter definire sia le sensazioni che le immagini, è necessario considerare questa duplice classificazione più dettagliatamente, e derivare da essa una definizione di percezione. Bisognerebbe dire che nella misura in cui la classificazione comprende l'intero mondo della fisica (incluse le porzioni non percepite), essa contiene elementi ipotetici. Ma non ci sofferemeremo sulle ragioni per ammetterle, che appartengono alla filosofia della fisica piuttosto che a quella della psicologia.
La classificazione fisica dei particolari unisce tutti quelli che sono aspetti di una “cosa”. Dato un particolare, si trova spesso (non diciamo sempre) che esiste una numero di altri particolari che ne differiscono in gradi via via decrescenti. Quelli (o alcuni di quelli) che ne differiscono molto lievemente saranno scoperti differire approssimativamente in accordo con certe leggi che possono essere chiamate, in un certo senso generale, leggi della “prospettiva”; esse includono le ordinarie leggi della prospettiva come casi speciali. Questa approssimazione diventa sempre più vicina all'esattessa quanto più la differenza diminuisce; in linguaggio tecnico, le leggi della prospettiva rendono conto delle differenze del primo ordine di quantità piccole, e altre leggi sono le sole cose che si richiedano per rendere conto delle differenze di secondo ordine. Cioé a dire, con il diminuire della differenza, la parte della differenza che non è in accordo con le leggi della prospettiva diminuisce sempre più rapidamente, e con la differenza totale è in un rapporto che tende a zero quanto più entrambe diventano piccole. Con tali mezzi possiamo teoricamente riunire un numero di particolari che possono essere definiti come gli “aspetti” o “apparenze” di una cosa in un certo momento. Se le leggi della prospettiva fossero sufficientemente conosciute, la connessione tra i differenti aspetti sarebbe espressa tramite equazioni differenziali.
Ci interessiamo, per ora, solo di quei particolari che costituiscono una cosa in un certo momento. Questo insieme di particolari può essere chiamato una “cosa momentanea”. Definire quali serie di “cose momentanee” costituiscano gli stati successivi di una cosa è un problema che comporta le leggi della dinamica. Le quali forniscono le leggi che governano i cambiamenti degli aspetti da un momento a un momento strettamente vicino, con lo stesso tipo di approssimazione differenziale all'esattezza che noi otteniamo per la gli aspetti spazialmente vicini attraverso le leggi della prospettiva. Pertanto una cosa momentanea è un insieme di particolari, mentre una cosa (che può essere identificata con l'intera storia della cosa) è una serie di questi insiemi di particolari. I particolari di un insieme sono uniti dalle leggi della prospettiva; i successivi insiemi sono uniti dalle leggi della dinamica. Questa è la visione del mondo che è appropriata alla fisica tradizionale.
La definizione di “cosa momentanea” comporta problemi che coinvolgono il tempo, poiché i particolari che costituiscono una cosa momentanea non saranno tutti simultanei, ma viaggeranno a partire dalla cosa con la velocità della luce (nel caso che la cosa sia nel vuoto). Vi sono complicazioni connesse con la relatività, ma per i nostri scopi presenti esse non sono vitali, e le ignorerò.
Invece di riunire dapprima insieme tutti i particolari che costituiscono una cosa momentanea, e successivamente formare le serie di insiemi successivi, possiamo aver prima riunito una serie di aspetti successivi relati dalle leggi della dinamica, e quindi aver formato l'insieme di tali serie relate dalle leggi della prospettiva. Possiamo esemplificare con il caso dell'attore sul palcoscenico: il nostro primo intento era di riunire tutti gli aspetti che egli presenta ai differenti spettatori in un certo momento, e quindi formare le serie di tali insiemi. Il nostro secondo intento è di riunire assieme in primo luogo tutti gli aspetti che l'attore presenta successivamente a un dato spettatore, e quindi fare la stessa cosa per gli altri spettatori, formando così un insieme di serie invece che una serie di insiemi. Il primo intento ci rivela cosa l'attore faccia; il secondo le impressioni che egli produce. Questo secondo modo di classificare i particolari è quello che ovviamente ha più rilevanza per la psicologia. È parzialmente tramite questo secondo metodo di classificazione che otteniamo le definizioni di “esperienza” o “biografia” o “persona”. Questo metodo di classificazione è anche essenziale per la definizione di sensazioni e immagini, come mi cimenterò a dimostrare più avanti. Ma dapprima occorre ampliare la definizione di prospettive e biografie.
Nel nostro esempio dell'attore ci siamo espressi, momentaneamente, come se la mente di ogni spettatore fosse interamente occupata dall'unico attore. Se così fosse, sarebbe possibile definire la biografia di uno spettatore come una serie di aspetti successivi dell'attore relazionati in accordo con le leggi della dinamica. Ma in realtà le cose non vanno così. Sempre durante la nostra vita cosciente riceviamo una varietà di impressioni, che sono aspetti di una varietà di cose. Dobbiamo considerare cosa unisce due sensazioni simultanee in una persona, o, più in generale, ogni due occorrenze che fanno parte di una sola esperienza. Dovremmo dire, aderendo al punto di vista della fisica, che due aspetti di cose differenti appartengono alla stessa prospettiva quando sono nello stesso posto. Ma questo in realtà non ci aiuterebbe, poiché “luogo” non è stato ancora definito. Possiamo dare un significato definito a ciò che intendiamo quando diciamo che due aspetti sono “nello stesso luogo”, senza introdurre nulla che vada al di la delle leggi della prospettiva e della dinamica?
Non mi sento sicuro del fatto che sia possibile ottenere una simile definizione; pertanto non assumerò che sia possibile, ma cercherò altre caratteristiche tramite cui una prospettiva o biografia può essere definita.
Quando, per esempio, vediamo un uomo e sentiamo una altro parlare contemporaneamente, ciò che vediamo e sentiamo ha una realzione con ciò che percepiamo, che rende le due cose insieme capaci di costituire, in qualche senso, una esperienza. È quando questa relazione esiste che due fatti risultano associati. L'”engramma” di Semon è formato da tutto ciò che esperiamo in un certo momento. Egli parla di due parti di questo tutto come aventi la relazione di "Nebeneinander" (M. 118; M.E. 33 ff.), che ricorda la "Zusammen" di Herbart. Io penso che la relazione possa semplicemente essere chiamata “simultaneità”. Si potrebbe dire che in ogni istante ogni sorta di cose che non sono parte della mia esperienza sta accadendo nel mondo e che perciò la relazione che stiamo cercando di definire non può essere solo la simultaneità. Questo, comunque, sarebbe un errore – il tipo di errore che la teoria della relatività evita. Non esiste un tempo universale, se non come elaborata costruzione; vi sono solo tempi locali, ognuno dei quali può essere preso come tempo di una biografia. Conseguentemente se sto (diciamo) sentendo un suono, i soli fatti che in un senso semplice sono simultanei con la mia sensazione sono eventi nel mio mondo privato, i.e. nella mia biografia. Possiamo perciò definire la “prospettiva” a cui la sensazione in questione appartiene come l'insieme dei particolari che sono simultanei con la sensazione. E similmente possiamo definire la “biografia” a cui la sensazione appartiene come l'insieme dei particolari che sono precedenti, successivi o contemporanei alla sensazione data. Per di più la stessa definizione può essere applicata ai particolari che non sono sensazioni. Essi sono realmente indispensabili alla teoria della relatività, se si deve fornire una spiegazione filosofica di ciò che si intende con “tempo locale” in quella teoria. Le relazioni di simultanieità e successione sono note nell'esperienza; esse possono essere analizzabili, ma questo non influisce sulla loro appropriatezza per definire le prospettive e le biografie. Quelle relazioni temporali che possono essere costruite tra eventi in biografie diverse sono di un genere differente: esse non sono esperite, e sono meramente logiche essendo intese a fornire modi convenienti di asserire le correlazioni fra differenti biografie.
Non è solo tramite le relazioni temporali che le parti di una biografia sono riunite nel caso degli esseri viventi. In questo caso vi sono fenomeni mnestici che costituiscono l'unità di una “esperienza”, e trasforma meri fatti in “esperienze”. Ho già parlato dell'importanza dei fenomeni mnestici per la psicologia, e non mi dilungherò su di essi ora, se non per osservare che sono ciò che trasforma una biografia (nel nostro senso tecnico) in una vita. Tramite essi viene prodotta la continuità di una “persona” o di una “mente”. Ma non c'è ragione di supporre che i fenomeni mnestici siano associati con biografie eccetto che nel caso degli animali e delle piante.
La nostra duplice classificazione dei particolari produce il dualismo di corpo e biografia riguardo a qualsiasi cosa nell'universo e non solo riguardo le cose viventi. Ciò avviene nel modo seguente. Ogni particolare del tipo considerato dalla fisica è un membro di due gruppi (1) il gruppo di particolari costituente gli altri aspetti dello stesso oggetto fisico; (2) il gruppo di particolari che hanno relazioni temporali dirette con il particolare dato.
Ognuno di questi è associato ad un luogo. Quando guardo una stella, la mia sensazione è (1) un membro del gruppo di particolari che è la stella, e che è associato con il luogo dove la stella si trova; (2) un elemento del gruppo di particolari che è la mia biografia, e che è associato con il posto dove io sono [2].
Il risultato è che ogni particolare del genere rilevante per la fisica è associato a due posti; e.g. la mia sensazione della stella è associata con il posto dove io sono e con il luogo dove si trova la stella. Questo dualismo non ha niente a che fare con qualche “mente” che io posso supporre di possedere; esso esisterebbe esattamente identico se io fossi rimpiazzato da una lastra fotografica. Possiamo chiamare i due luoghi rispettivamente attivo e passivo [3]. Così nel caso della percezione o fotografia di una stella, il luogo attivo è il luogo dove si trova la stella, mentre il luogo passivo è il posto dove si trovano il percipiente o la lastra fotografica.
Così possiamo, senza allontanarci dalla fisica, riunire assieme tutti i particolari attivamente in un certo posto, o tutti i particolari passivamente in un certo luogo. Nel nostro caso il primo gruppo è il nostro corpo (o il nostro cervello) mentre nell'altro è la nostra mente, in quanto consiste di percezioni. Nel caso della lastra fotografica il primo gruppo è la lastra così come la vede la fisica, il secondo l'aspetto del cielo che essa fotografa. (Per essere schematicamente semplice, sto ignorando varie complicazioni connesse con il tempo, che richiedono qualche elaborazione tediosa ma perfettamente possibile.) Così quello che può essere chiamata soggettività nel punto di vista non è una peculiarità distintiva della mente: è altrettanto presente nella lastra fotografica. E la lastra fotografica ha la sua biografia così come la sua “materia”. Ma questa biografia è un oggetto della fisica e non ha nulla delle caratteristiche peculiari attraverso cui i fenomeni “mentali” si distinguono con la sola eccezione della soggettività.
Aderendo, per il momento, al punto di vista della fisica, possiamo definire “percezione” di un oggetto come l'apparenza dell'oggetto dal luogo dove vi è un cervello (o, negli animali meno evoluti, qualche struttura nervosa adatta), con gli organi di senso e i nervi che formano parte del medium interposto. Tali apparenze degli oggetti sono distinte dalle apparenze in altri posti da certe peculiarità, e cioé
(1) Essi danno origine a fenomeni mnestici;
(2) Sono essi stessi influenzati da fenomeni mnestici.
Ciò significa che possono essere ricordati e essere associati o influenzare le nostre abitudini, o dare origini a immagini, etc., e essi sono differenti da ciò che sarebbero stati se la nostra passata esperienza fosse stata differente – per esempio, l'effetto di un enunciato pronunciato sull'ascoltatore dipende dal fatto che l'ascoltatore conosca o meno il linguaggio, che una questione di esperienza passata. Sono queste due caratteristiche, entrambe connesse con fenomeni mnestici, che distinguono le percezioni dalle apparenze di oggetti in luoghi dove non vi sono esseri viventi.
In teoria, sebbene non sempre in pratica, possiamo, nella nostra percezione di un oggetto, separare la parte che è dovuta all'esperienza passata dalla parte che deriva senza influenze mnestiche dal carattere dell'oggetto. Possiamo definire “sensazione” quella parte che deriva in questo modo dall'oggetto, mentre la rimanente, che è un fenomeno mnestico, sarà da aggiungere alla sensazione per produrre quella che è chiamata “percezione”. Secondo questa definizione la sensazione è il nucleo teorico nella reale esperienza; la reale esperienza è la percezione. È ovvio che vi sono gravi difficoltà nel mettere in pratica queste definizioni, ma non ci occuperemo ancora di esse. Dobbiamo passare, il prima possibile, dal punto di vista della fisica, che finora abbiamo adottato, al punto di vista della psicologia, nel quale facciamo maggior uso dell'introspezione nel primo dei tre sensi discussi nella precedente lezione.
Ma prima di compiere il passaggio, vi sono due punti che devono essere chiariti. In primo luogo ogni cosa che è esterna alla mia personale biografia è fuori dalla mia esperienza; perciò se qualcosa può essere conosciuto da me può essere conosciuto solo in uno dei seguenti modi
(1) per inferenza da cose nella mia biografia, o
(2) per qualche principio a priori indipendente dall'esperienza.
Non credo che qualcosa di vicino alla certezza possa essere ottenuto tramite qualcuno di questi metodi, e perciò qualsiasi cosa risieda al di fuori della mia biografia personale deve essere considerato, da un punto di vista teoretico, come un'ipotesi. L'argomento teorico per adottare una ipotesi è che essa semplifica l'asserzione delle leggi in accordo con quegli eventi che accadono nella nostra esperienza. Ma non ci sono molte buone ragioni per supporre che una tale legge sempliche sia più probabilmente vera di una legge complicata, sebbene vi siano buone ragioni per assumere una legge semplice nella pratica scientifica, come ipotesi di lavoro, se essa spiega i fatti così bene come un'altra meno semplice. La credenza nell'esistenza di cose al di fuori della mia propria biografia esiste antecedentemente all'evidenza e può essere distrutta solo, se ciò è possibile, da una lunga pratica del dubbio filosofico. Per gli scopi della scienza, è giustificato praticamente dalla semplificazione che introduce nelle leggi della fisica. Ma dal punto di vista della teoria logica esso deve essere considerato come un pregiudizio, non come una teoria ben fondata. Con questa premessa, propongo di continuare a sostenere il pregiudizio.
Il secondo punto riguarda la relazione del nostro punto di vista con quello che concerne le sensazioni come causate da stimoli esterni al sistema nervoso (o almeno al cervello) e la distinzione delle immagini come “provocate da un eccitazione centrale”, i.e. dovute a cause cerebrali che non possono essere ricondotte a niente che influisca sugli organi di senso. È chiaro che, se la nostra analisi degli oggetti fisici ha da essere valida, questo modo di definire le sensazioni abbisogna di una reinterpretazione. È altresì chiaro che dobbiamo essere in grado di trovare tale nuova interpretazione se la nostra teoria deve essere ammissibile.
Per rendere chiara la materia, prenderemo in considerazione l'esempio più semplice possibile. Si consideri una certa stella e si supponga per il momento che la sua dimensione sia insignificante. Cioé a dire che la considereremo per scopi pratici come un punto luminoso. Supponiamo anche che essa esista solo per un breve periodo di tempo, diciamo un secondo. Allora, secondo la fisica, ciò che accade è che una onda sferica di luce viaggia dalla stella attraverso lo spazio, proprio come, quando si getta una pietra in una pozzanghera, le onde viaggiano dal posto dove la pietra colpisce l'acqua. Questa velocità può essere calcolata inviando un raggio di luce a uno specchio, e osservando quanto tempo passa prima che il raggio riflesso vi raggiunga, proprio come la velocità del suono può essere accertata tramite l'eco.
Ciò che accade quando una onda luminosa raggiunge un dato luogo non lo possiamo dire, eccetto che nel solo caso in cui il luogo in questione è un cervello connesso con un occhio rivolto nella direzione giusta. In questo caso speciale sappiamo cosa avviene: abbiamo la sensazione detta “vedere la stella”. In tutti gli altri casi, sebbene conosciamo (più o meno ipoteticamente) qualcuna delle correlazioni e delle proprietà astratte della stella, non conosciamo l'apparenza stessa. Si può, come esempio confrontare le differenti apparenze della stella con la coniugazione di un verbo greco, con l'eccezione che il numero delle sue parti è realmente infinito e non solo apparentemente tale per lo scolaro disperato. Nel vuoto, le parti sono regolari, e possono essere derivate dalla radice (immaginaria) seguendo le leggi della grammatica, i.e. della prospettiva. Essendo la stella situata nello spazio vuoto, può essere definita, per gli scopi della fisica, come consistentedi tutte quelle apparenze che essa presenta nel vuoto, insieme a quelle che, in accordo con le leggi della prospettiva, si presenterebbero altrove se le sue apparenze altrove fossero regolari. Questo è soltanto l'adattamento della definizione di materia che fornii in una precedente lezione. L'apparenza della stella in un certo luogo, se è regolare, non richiede qualche causa o spiegazione oltre all'esistenza della stella. Ogni apparenza regolare è un membro reale del sistema che è la stella e la sua causazione è interamente interna a questo sistema. Possiamo esprimere ciò dicendo che una apparenza regolare è dovuta solo alla stella, ed è realmente parte della stella, nel senso in cui un uomo è parte della razza umana.
Ma attualmente la luce della stella raggiunge la nostra atmosfera. Comincia a essere rifratta e offuscata dalla nebbia, e la sua velocità diminuisce lievemente. Infine raggiunge l'occhio umano, dove avviene un complicato processo, processo che culmina in una sensazione che ci dà motivo di credere a tutto ciò che è successo prima. Ora, le apparenze irregolari della stella non sono, in senso stretto, membri del sistema che è la stella secondo la definizione di materia. Le apparenze irregolari, comunque, non sono meramente irregolari: esse derivano da leggi che possono essere asserite nei termini della materia attraverso cui la luce è passata. Le fonti di una apparenza irregolare sono perciò due:
(1) L'oggetto che appare in maniera irregolare;
(2) Il medium interposto
Si deve notare che, mentre la concezione di una apparenza regolare è perfettamente precisa, la concezione di una apparenza irregolare è di quelle capaci di qualche grado di vaghezza. Quando l'influenza distorcente del medium è sufficientemente grande, il particolare risultante non può più essere considerato come un'apparenza dell'oggetto, ma deve essere trattado di per sé. Ciò avviene in special modo quando il particolare in questione non può essere ricondotto ad un oggetto, ma è una mistura di due o più oggetti. Questo caso è normale nella percezione: noi vediamo come uno cose che il microscopio o il telescopio rivelano essere molti oggetti differenti. La nozione di percezione è perciò imprecisa: più o meno percepiamo le cose, ma sempre con una grande quantità di vaghezza e confusione.
Nel considerare le apparenze irregolari, viene compiuto un certo errore molto naturale che può essere evitato. Al fine che un particolare possa contare come un'apparenza irregolare di un certo oggetto, non è necessario che appaia simile alle apparenze regolari per quanto concerne le sue qualità intrinseche. Tutto ciò che è necessario è che sia derivabile dalle apparenze regolari tramite le leggi che esprimono l'influenza distorcente del medium. Qualora essa sia così derivabile il particolare in questione può essere considerato come causato dalle apparenze regolari, e perciò dall'oggetto stesso, insieme con le modifiche risultanti dal medium. In altri casi, il particolare in questione può, nello stesso senso, essere considerato come causato da diversi oggetti insieme al medium; in questo caso, esso può essere chiamato un'apparenza confusa di diversi oggetti. Se capita che sia in un cervello, può essere chiamata apparenza confusa di questi oggetti. Tutte le percezioni reali sono confuse in misura più o meno grande.
Possiamo ora interpretare in termini della nostra teoria la distinzione tra quelle occorrenze mentali che sono dette avere uno stimolo esterno, e quelle che sono il risultato di un “eccitazione centrale”, i.e. che non hanno stimoli esterni al cervello. Quando un fatto mentale può essere considerato come l'apparenza di un oggetto esterno al cervello, sebbene irregolare, o anche come un'apparenza confusa di molti di tali oggetti, allora possiamo considerarlo come avente per suo stimolo l'oggetto o gli oggetti in questione, o le loro apparenze come si presentano all'organo di senso. Quando, d'altro canto, un fatto mentale non ha sufficiente connessione con oggetti esterni al cervello per essere considerato come un apparenza di tale oggetto, allora la sua causazione fisica (se ve ne è alcuna) sarà da cercarsi nel cervello. Nel primo caso può essere chiamata percezione; nel secondo non lo può essere. Ma la distinzione è di grado non di genere. Finché non si comprenderà ciò, nessuna soddisfacente teoria della percezione, sensazione o immaginazione è possibile.
NOTE ALLA LEZIONE VII
[1] Quando parlo di “costituenti ultimi”, non intendo necessariamente ciò che è teoreticamente incapace di analisi, ma solo quelli tali che attualmente non sappiamo come analizzare. Parlo di tali costituenti come “particolari”, o come “particolari relativi” quando intendo enfatizzare il fatto che possono essere in se stessi complessi.
[2] Ho spiegato altrove la maniera in cui lo spazio è costruito sulla base di questa teoria, e come la posizione di una prospettiva è posta in relazione con la posizione di un oggetto fisico ("Our Knowledge of the External World," Lezione III, pp. 90, 91).
[3] Uso questi soltanto come nomi; non desidero introdurre alcuna nozione di “attività”
---------------------------------------------------------LEZIONE VIII. SENSAZIONI E IMMAGINI
Il dualismo di mente e materia, se abbiamo ragione, non può essere considerato metafisicamente valido. Cionondimeno ci sembra di poter rilevare un certo dualismo, forse non fondamentale, nel mondo come noi lo vediamo. Il dualismo non concerne primariamente la sostanza del mondo, ma le leggi causali. Al proposito citeremo ancora William James. Egli sottolinea che quando soltanto “immaginiamo” delle cose, non vi sono quegli effetti che emergono quando la cosa è “reale”. Egli considera il caso di un fuoco immaginario.
“Immagino un fuoco che divampa; lo pongo vicino al mio corpo ma non mi riscalda minimamente. Vi getto un rametto ed esso brucia o rimane qual è, a mio piacimento. Richiamo alla mente dell'acqua, e la verso sul fuoco, ma non ne consegue alcuna differenza. Spiego tutti questi fatti chiamando questa serie di esperienze irreali una serie mentale. Un fuoco mentale è quello che non brucerà rami reali; l'acqua mentale è quella che necessariamente (sebbene possa farlo) non spegherà neanche un fuoco mentale ... Con gli oggetti “reali”, al contrario, si hanno sempre le conseguenze; e così le esperienze reali vengono distinte da quelle mentali, le cose dai nostri pensieri, corrispondenti oppure no ad esse, e cadono insieme in quella stabile parte dell'esperienza complessiva e caotica sotto il nome di mondo fisico” [1]
In questo passo James si esprime, inavvertitamente, come se i fenomeni che egli descrive come “mentali” non abbiano alcun effetto. Ciò, naturalmente, non corrisponde alla realtà: essi hanno i loro effetti, proprio come li hanno i fenomeni fisici, ma i loro effetti seguono leggi differenti. Per esempio i sogni, come mostrato da Freud, sono tanto soggetti a leggi quanto lo sono i movimenti dei pianeti. Ma le leggi sono differenti: in un sogno si può essere trasportati da un posto a un altro in un momento, o una persona può trasformarsi in un'altra sotto i vostri occhi. Queste differenze ci spingono a distinguere il mondo dei sogni dal mondo fisico.
Se i due generi di leggi causali potessero essere accuratamente distinte, potremmo chiamare un fatto “fisico” quando obbedisce alle leggi causali proprie del mondo fisico, e “mentale” quando obbedisce alle leggi causali proprie del mondo mentale. Poiché il mondo mentale e il mondo fisico interagiscono, vi sarà un confine tra i due: ci dovrebbero essere eventi che hanno cause fisiche ed effetti mentali, mentre ce ne saranno altri che avranno cause mentali ed effetti fisici. Quelli che hanno cause fisiche ed effetti mentali le potremmo definire “sensazioni”. Quelle che hanno cause mentali ed effetti fisici possono forse essere identificati con ciò che chiamiamo movimenti volontari; ma essi per ora non ci interessano.
Queste definizioni avrebbero tutta la precisione desiderabile se la distinzione tra causazione fisica e psicologica fosse chiara e netta. È un dato di fatto, comunque, che questa distinzione è in effetti per nulla netta. È possibile che, con ulteriore conoscenze, si trovi che tale distinzione non è più primaria della distinzione tra le leggi dei gas e le leggi dei corpi rigidi. Tale distinzione soffre del fatto che un evento può essere un effetto di molte cause in accordo con molte leggi causali e non possiamo, in generale, indicare nulla di unico come la causa di un certo evento. Ed infine non è affatto certo che le leggi causali peculiari che governano gli eventi mentali non siano in realtà fisiologiche. La legge dell'abitudine, che è una delle più caratteristiche, può essere spiegata in termini delle caratteristiche del tessuto nervoso, e queste peculiarità, a loro volta, possono essere spiegate dalle leggi della fisica. Sembra, perciò, che si sia condotti a un differente genere di definizione. È per questa ragione che che si è reso necessario sviluppare la definizione di percezione. Possiamo definire la sensazione come gli elementi non mnestici di una percezione.
Quando, seguendo la nostra definizione, proviamo a stabilire quali elementi nella nostra esperienza abbiano la natura delle sensazioni, ci troviamo più in difficoltà di quanto ci saremmo aspettati. Prima facie, ogni cosa che perviene a noi attraverso i sensi è sensazione: le immagini che vediamo, i suoni che sentiamo, gli odori che odoriamo e così via; anche cose come il mal di testa o la sensazione di uno stiramento muscolare. Ma nelle circostanze reali molto è interpretazione, molto dipende dalle correlazioni abituali, risulta mescolato con esperienze tali che il nucleo di pura sensazione deve essere estratto attraverso un'investigazione meticolosa. Per fare un esempio: se vi recate a teatro nel vostro paese, vi sembra di udire altrettanto bene dalla platea come dalla galleria; in entrambi i casi pensate di non perdere niente. Ma se andate in un paese straniero in cui avete una conoscenza approssimativa del linguaggio, vi sembrerà di essere diventati mezzi sordi, e troverete necessario essere più vicino al palcoscenico di quanto avreste bisogno nel vostro paese. La ragione è che, nel sentire parlare il nostro linguaggio, immediatamente e inconsciamente completiamo ciò che abbiamo realmente sentito con inferenze circa ciò che dev'essere stato detto, e non ci rendiamo mai conto che non abbiamo udito le parole che abbiamo soltanto inferito. In un linguaggio straniero queste inferenze sono più difficili, e dipendiamo maggiormente dall'effettiva sensazione. Se ci trovassimo in un mondo straniero, dove i tavoli assomiglino a cuscini e i cuscini ai tavoli, scopriremmo quanto di ciò che pensiamo di vedere è in realtà un'inferenza. Ogni sensazione piuttosto familiare è per noi segno delle cose che usualmente la accompagnano, e molte di queste cose sembrano formare parte della sensazione. Ricordo che durante i primi tempi delle automobili ero con un amico quando una gomma scoppiò con grande fragore. Il mio amico pensò si trattasse di una pistola, e suffragò la sua opinione sostenendo di aver visto il lampo di luce. Ma naturalmente non vi era stato alcun lampo. Oggigiorno nessuno vede un bagliore quando scoppia una gomma.
Perciò al fine di pervenire a ciò che è realmente sensazione in un avvenimento che, a prima vista, sembra non contenere altro, dobbiamo separare tutto ciò che è dovuto all'abitudine o all'aspettativa o all'interpretazione. Ciò è compito dello psicologo, e non si tratta di un compito semplice. Per i nostri scopi non è importante stabilire per ogni caso quale sia il nucleo formato dalla sensazione; è solo importante notare che vi è un certo nucleo costituito da sensazioni, poiché l'abitudine, l'aspettativa e la interpretazione sorgono diversamente in occasioni diverse, e la diversità è chiaramente dovuta alle differenze in ciò che è resente ai sensi. Quando alla mattina aprite il vostro giornale la sensazione effettiva di vedere lo stampato forma una minima parte di ciò che accade in voi, ma essa è il punto di partenza di tutto il resto, ed è grazie ad essa che il giornale è un mezzo di informazione buona o cattiva. Così, benché possa essere difficile determinare con esattezza quale sia la sensazione in una data esperienza, è chiaro che la sensazione esiste, a meno di negare, come Leibniz, ogni azione del mondo esterno su di noi.
Le sensazioni sono ovviamente la fonte delle nostra conscenza del mondo, inclusa quella del nostro corpo. Può sembrare naturale considerare la sensazione come se fosse in sé una conoscenza, e fino a poco tempo fa anch'io la consideravo tale. Quando, per esempio, vedo una persona di cui so che sta venendo verso di me per la strada, sembra che il solo vedere sia la conoscenza. È comunque innegabile che la conoscenza avviene attraverso il vedere, ma penso che sia un errore considerare la sola vista in sé come conoscenza. Se la dobbiamo considerare tale, dobbiamo distinguere colui che vede da ciò che è visto: dobbiamo dire che, quando vediamo una macchia di colore di una certa forma, la macchia di colore è una cosa e il nostro vederla un'altra. Questo modo di vedere, comunque, richiede l'ammissione del soggetto, o atto, nel senso discusso nella prima lezione. Se vi fosse un soggetto, esso potrebbe avere una relazione con la macchia di colore, ossia, il tipo di relazione che potremmo chiamare coscienza. In questo caso la sensazione, come evento mentale, consisterà della consapevolezza del colore, mentre il colore stesso rimarrà qualcosa di interamente fisico e può essere chiamato dato sensoriale, per distinguerlo dalla sensazione. Il soggetto, comunque, sembra essere una finzione logica, come i punti matematici e gli istanti. È introdotto non perché l'osservazione lo riveli ma perché è linguisticamente conveniente e apparentemente richiesto dalla grammatica. Entità nominali di questo tipo possono esistere oppure no ma non ci sono buone ragioni per assumere che esse esistano. Le funzioni che sembrano espletare possono sempre essere svolte da classi o serie o altre costruzioni logiche, costituite da entità meno dubbie. Se dobbiamo evitare un'assunzione perfettamente gratuita, dobbiamo fare a meno del soggetto come uno degli elementi reali del mondo. Ma quando facciamo questo, la possibilità di distinguere la sensazione dal dato sensoriale svanisce; almeno io non vedo alcun modo di preservare la distinzione. Conseguentemente la sensazione che abbiamo quando vediamo una macchia di colore è semplicemente quella macchia di colore, un costituente reale del mondo fisico, e una parte di cui si occupa la fisica. Una macchia di colore di certo non è conoscenza, e perciò non possiamo dire che la pura sensazione sia conoscitiva. Attraverso i suoi effetti psicologici essa è causa di cognizioni, in parte essendo essa stessa un segno di cose che le sono correlate, come e.g. sono correlate le sensazioni della vista e del tatto, e in parte dando origine a immagini e memorie dopo che la sensazione si è spenta. Ma in sé la sensazione pura non è conoscitiva.
Nella prima lezione considerammo l'opinione di Brentano secondo cui “possiamo definire i fenomeni psichici dicento che sono fenomeni che contengono intenzionalmente un oggetto”. Abbiamo visto le ragioni per rifiutare questa opinione in generale, dobbiamo ora mostrare che può essere confutata nel caso specifico della sensazione. Il genere di argomenti che mi portava ad accettare formalmente l'opinione di Brentano in questo caso è eccezionalmente semplice. Quando vedo una macchia di colore, mi sembra che il colore non sia psichico, ma fisico, mentre il mio vedere non è fisico, ma psichico. Perciò concludevo che il colore fosse qualcosaltro rispetto al mio vedere il colore. Questo argomento, per quanto riguarda la storia del mio sviluppo filosofico, era diretta contro l'idealismo: la parte preminente era l'asserzione che il colore è fisico, non psichico. Non vi annoierò ora con le ragioni per sostenere che la macchia di colore è fisica, a differenza di ciò che sostiene Berkeley; le ho già esposte e non vedo ragione per modificarle. Ma da ciò non segue che la macchia di colore sia anche psichica, a meno che non assumiamo che il fisico e lo psichico non possano sovrapporsi, ciò che non considero più come assunzione valida. Se ammettiamo – come penso che si debba – che la macchia di colore può essere sia fisica che psichica, la ragione per distinguere il dato sensoriale dalla sensazione scompare, e possiamo dire che la macchia di colore e la nostra sensazione di vederla sono cose identiche.
Questa è l'opinione di William James, del professor Dewey, e dei realisti americani. Le percezioni, sostiene il professor Dewey, non sono di per sé casi di conoscenza, ma semplicemente eventi naturali che non godono di uno stato di conoscenza maggiore di quello (diciamo) posseduto da uno scroscio di pioggia. “Provino pure (i realisti) a concepire le percezioni come eventi puramente naturali, non casi di consapevolezza o di apprendimento, e saranno sorpresi di vedere quanto poco perdano” [2]. Io penso che in ciò sia nel giusto eccetto che nel supporre che i realisti saranno sorpresi. Molti di loro già sostengono la tesi che egli sostiene, e altri propendono per essa. Ad ogni modo, è l'opinione che adotterò in queste lezioni.
La sostanza del mondo, nella misura in cui noi la sperimentiamo, consiste, nella visione delle cose che sto sostenendo, di innumerevoli particolari transitori come quelli che occorrono nel vedere, ascoltare, etc., insieme con immagini che più o meno gli assomigliano, delle quali parlerò a breve. Se la fisica è nel giusto, ci sono, tra i particolari che esperiamo, altri, probabilmente ugualmente (o quasi) transitori, che costituiscono quella parte del mondo materiale che non ricade nel genere di contatto con un corpo vivente che è richiesto per trasformarsi in sensazione. Ma questo argomento appartiene alla filosofia della fisica, e non abbiamo bisogno di interessarcene nella nostra presente ricerca.
Le sensazioni sono ciò che è comune ai mondi mentale e fisico; esse possono essere definite come l'intersezione di mente e materia. Questa non è affatto una tesi nuova; è sostenuta non soltanto dagli autori americani che ho menzionato ma anche da Mach nella sua Analysis of Sensations, che fu pubblicata nel 1886. L'essenza della sensazione, secondo la tesi che sto sostenendo, è la sua indipendenza dall'esperienza passata. È il nucleo delle esperienze attuali, che non esiste mai isolatamente eccetto che, probabilmente, nei bambini molto piccoli. Non è in se stessa conoscenza, ma fornisce i dati per la nostra conoscenza del mondo fisico, inclusi i nostri corpi.
Vi sono alcuni che credono che la nostra vita mentale si costruisca a partire solo dalle sensazioni. Ciò potrebbe essere vero; ma in ogni caso io penso che il solo ingrediente richiesto in aggiunta alle sensazioni siano le immagini. Cosa siano le immagini e come vadano definite sarà ora l'oggetto della nostra ricerca.
La distinzione fra immagini e sensazioni potrebbe sembrare di primo acchito estremamente semplice. Quando chiudiamo i nostri occhi e richiamiamo la visione di scene familiari, usualmente non abbiamo difficoltà, finché rimaniamo coscienti, nel discriminare tra ciò che stiamo immaginando e ciò che è realmente visto. Se immaginiamo qualche brano musicale che conosciamo, possiamo passarlo in rassegna dall'inizio alla fine senza che possa essere scoperta alcuna tendenza a supporre che lo stiamo sentendo realmente. Ma sebbene tali casi siano così chiari da non dare adito a nessuna confusione, ve ne sono altri che sono molto più difficili, e la definizione di immagine non si presenta affatto come un problema semplice.
Per iniziare non possiamo sempre sapere se stiamo sperimentando una sensazione o un'immagine. Le cose che vediamo nei sogni quando i nostri occhi sono chiusi devono essere considerate immagini, sebbene quando sognamo sembrino sensazioni. Le allucinazioni spesso iniziano come immagini persistenti, e solo gradualmente acquisiscono quella influenza sulla credenza che porta il paziente a considerarle sensazioni. Quando ascoltiamo un debole suono – lo scoccare di un orologio lontano, gli zoccoli di un cavallo sul selciato – molte volte pensiamo di udirlo prima di farlo realmente, poiché l'aspettativa produce un'immagine e noi la scambiamo erroneamente per una sensazione. La distinzione tra immagini e sensazioni è pertanto niente affatto ovvia all'introspezione. [3]
Si è cercato di distinguere le immagini dalle sensazioni in tre differenti modi:
(1) Tramite il minor grado di vividezza delle immagini;
(2) Tramite la nostra assenza di credenza nella loro “realtà fisica”;
(3) Tramite il fatto che le loro cause ed effetti differiscono da quelli delle sensazioni.
Io credo che solo il terzo sia un criterio universalmente accettabile. Gli altri due sono applicabili in molti casi, ma non possono essere usati al fine della definizione poiché sono suscettibili di eccezioni. Cionondimeno entrambe meritano di essere attentamente considerate.
(1) Hume, che dà i nome di “impressioni” e “idee” a ciò che per gli scopi presenti si identifica con le nostre “sensazioni” e “immagini”, parla delle impressioni come di “quelle percezioni che si manifestano con maggior forza e violenza” mentre egli definisce le idee come “le immagini sbiadite di quelle (i.e. delle impressioni) nel pensare e nel ragionare”. Le sue osservazioni immediatamente successive, comunque, mostrano l'inadeguatezza del suo criterio di “forza” e “debolezza”. Egli dice:
“Non credo che siano necessarie molte parole per spiegare questa distinzione. Ognuno vede subito da sé la differenza fra il sentire e il pensare. In generale è facile distinguere la loro diversità di grado, anche se in certi casi particolari è però possibile che si trovino estremamente vicini l'uno all'altro. Così nel sonno, nella febbre, nella pazzia o in qualsiasi violenta emozione dell'anima, le idee possono avvicinarsi alle impressioni; e, dall'altra parte, talolta accade che queste siano così deboli e tenui da non poterle distinguere dalle idee. Ma malgrado questa stretta rassomiglianza che troviamo in alcuni casi, esse sono in generale tanto diverse che nessuno può farsi scrupolo di classificarle separatamente e assegnare a ognuna un nome speciale per metterne in rilievo la differenza” ("Treatise of Human Nature," Part I, Section I).
Penso che Hume sia nel giusto quando sostiene che esse vadano classificate sotto voci differenti, con un nome proprio di ognuna. Ma per sua stessa ammissione nel passaggio di cui sopra, il suo criterio per distinguerle non è sempre adeguato. Una definizione non è fondata se si applica solo ai casi dove la differenza è lampante: lo scopo essenziale di una definizione è fornire un segno di riconoscimento che sia applicabile anche ai casi marginali – ad eccezione, naturalmente, di quando stiamo trattando con un concetto, come e.g. la calvizie, che è questione di grado e non ha confini ben definiti. Ma finora non abbiamo visto ragioni per pensare che la differenza fra sensazioni e immagini sia solo di grado.
Il professor Stout nel suo “Manual of Psychology” dopo aver discusso diversi modi di distinguere fra sensazioni e immagini, arriva ad una opinione che è una modifica di quella di Hume. Egli afferma (cito dalla seconda edizione):
“La nostra conclusione è che alla radice della distinzione fra immagine e percetto, rispettivamente stati deboli e vividi, è basata su una differenza di qualità. Il percetto ha una aggressività che non appartiene all'immagine. Esso colpisce la mente con vari gradi di forza o vivacità a seconda della varia intensità dello stimolo. Questo grado di forza o vivacità è parte di ciò che ordinariamente intendiamo per intensità della sensazione. Ma questo costituente della intensità delle sensazioni è assente nell'immagine mentale” (p. 419).
Questa opinione tiene conto del fatto che le sensazioni possono raggiungere diversi gradi di vaghezza – e.g. nel caso di una stella appena visibile o di un suono appena udibile – senza diventare immagini e che perciò la sola vaghezza non può essere il tratto distintivo delle immagini. Dopo aver spiegato la sorpresa improvvisa di un bagliore di luce o di un fischio di una macchina a vapore, Stout afferma che “nessuna immagine da sola colpisce la mente in questa maniera” (p. 417). Ma io credo che questo criterio fallisca nella maggior parte di quegli esempi in cui il criterio di Hume nella sua forma originale fallisce. Macbeth parla di
quella suggestione
La cui orrida immagine mi fa rizzare i capelli
E mi fa battere il cuore in petto
In modo innaturale.
Il fischio di un motore a vapore può difficilmente avere un effetto più forte di questo. Una emozione molto intensa è accompagnata spesso – specialmente quando sono coinvolti qualche azione futura o qualche esito incerto – da immagini così potenti e pervasive da determinare l'intero corso della vita, immagini che eliminano tutte le sollecitazioni contrarie alla volontà per la loro capacità di possedere interamente la mente. E in tutti i casi in cui le immagini, inizialmente riconosciute come tali, gradualmente si trasformano in allucinazioni, vi è quella “forza o vivacità” che si suppone sia sempre assente dalle immagini. I casi dei sogni e della febbre accompagnata da deliri sono così difficili da adattare al criterio modificato del professor Stout quanto lo sono a quello di Hume. Concludo perciò che il test della vivacità, sebbene applicabile nelle circostanze ordinarie, non può essere usato per definire le differenze tra sensazioni e immagini.
(2) Possiamo tentare di distinguere le immagini dalle sensazioni per l'assenza della credenza nella “realtà fisica” delle immagini. Quando siamo consci che ciò che stiamo esperendo è un'immagine non le conferiamo lo stesso genere di credenza che conferiamo a una sensazione: non pensiamo che abbia lo stesso potere di produrre conoscenza del “mondo esterno”. Le immagini sono “immaginarie”; in qualche senso sono “irreali”. Ma questa differenza è difficile da analizzare o asserire correttamente. Ciò che chiamiamo l'”irrealtà” delle immagini richiede un'interpretazione che non può essere espressa dicendo “non vi è tale cosa”. Le immagini sono parte effettiva del mondo tanto quanto le sensazioni. Tutto ciò che intendiamo chiamando un'immagine “irreale” è che non possiede gli eventi concomitanti che avrebbe se fosse una sensazione. Quando richiamiamo l'immagine visiva di una sedia non tentiamo di sedervici, perché sappiamo che, come il pugnale di Macbeth, è “visibile ma non sensibile” - i.e. non possiede le correlazioni con le sensazioni tattili che essa avrebbe se fosse una sensazione visiva e non solamente una immagine visiva. Ma ciò significa che la cosiddetta “irrealtà” delle immagini consiste soltanto nel loro non obbedire alle leggi della fisica, e ciò ci riconduce alla distinzione causale tra immagini e sensazioni.
Questa opinione è confermata dal fatto che sentiamo le immagini come “irreali” solo quando già conosciamo che esse sono immagini. Le immagini non possono essere difinite tramite il sentimento di irrealtà, perché quando crediamo a torto che un'immagine sia una sensazione, come nel caso dei sogni, la sentiamo così reale come sentiremmo una sensazione. Il nostro sentimento di irrealtà risulta dall'aver già compreso che stiamo trattando con un'immagine, e non può perciò essere la definizione di ciò che intendiamo per immagine. Nella misura in cui un'immagine ci inganna sul suo status, essa ci inganna anche circa le sue correlazioni, che costituiscono ciò che intendiamo come sua “realtà”.
(3) Ciò ci conduce al terzo modo di distinguere le immagini dalle sensazioni, e cioé, tramite le loro cause e i loro effetti. Credo che questa sia l'unica base per una distinzione fondata. James, nel passaggio circa il fuoco mentale che non brucia i rami reali, distingue le immagini tramite i loro effetti, ma io penso che sia più credibile la distinzione compiuta tramite le loro cause. Il professor Stout (loc. cit., p. 127) afferma: “Un tratto distintivo di ciò che conveniamo chiamare sensazione è il suo modo di essere prodotta. È causata da ciò che chiamiamo uno stimolo. Uno stimolo è sempre qualche condizione esterna al sistema nervoso e operante sopra esso”. Io penso che questa sia l'opinione corretta, e che la distinzione fra immagini e sensazioni può essere compiuta solo tenendo conto della loro causazione. Le sensazioni provengono dagli organi di senso, mentre le immagini no. Non possiamo avere sensazioni visive nell'oscurità o a occhi chiusi, ma bensì possiamo avere in tali circostanze delle immaggini visive. Conseguentemente le immagini sono state definite come “sensazioni prodotte da eccitazioni centrali”, i.e. sensazioni che hanno la loro causa fisiologica solo nel cervello, non anche negli organi di senso e i nervi che collegano gli organi di senso al cervello. Penso che l'espressione “sensazioni prodotte da eccitazioni centrali” presuma più del necessario, poiché dà per garantito che un'immagine debba avere una causa fisiologica prossima. Ciò è probabilmente vero,ma è solo una ipotesi, e per i nostri scopi una ipotesi non necessaria. Sembrerebbe che si entri più a fondo nel problema di ciò che possiamo immediatamente osservare affermando che un'immagine è occasionata, tramite l'associazione, da una sensazione o da un'altra immagine, in altre parole che essa ha una causa mnestica – cosa che non le impedisce di avere anche una causa fisica. E io penso si troverà che la causazione di una immagine si manifesta sempre secondo le leggi mnestiche, i.e. è governata dall'abitudine e dall'esperienza passata. Se sentite un uomo suonare la pianola meccanica senza guardarlo, avrete delle immagini delle sue mani sui tasti come se stesse suonando il pianoforte; se ad un tratto lo guardate mentre siete assorbiti nella musica, sperimenterete una sorpresa quando noterete che le sue mani non stanno toccando i tasti. La vostra immagine delle sue mani è dovuta alle molte volte in cui avete sentito suoni simili e contemporaneamente avete visto le mani del suonatore sul pianoforte. Quando l'abitudine e l'esperienza passata giocano questo ruolo, siamo nella regione dello mnestico come opposto all'ordinaria causazione fisica. E io penso che, se dobbiamo considerare come ultimativamente valida la differenza tra causazione fisica e mnestica, dobbiamo distinguere le immagini dalle sensazioni in quanto fornite di cause mnestiche, sebbene esse possano anche avere cause fisiche. Le sensazioni, d'altro canto, avranno solo cause fisiche.
Comunque sia, la distinzione effettiva fra sensazioni e immagini consiste nel fatto che la causazione delle sensazioni, ma non quella delle immagini, coinvolge come sua parte essenziale la stimolazione dei nervi che conducono un effetto al cervello, usualmente dalla superficie del corpo. E ciò spiega il fatto che le immagini e le sensazioni non possono sempre essere distinte tramite la loro natura intrinseca.
Le immagini differiscono anche dalle sensazione riguardo ai loro effetti. Le sensazioni, di norma, hanno sia effetti fisici che mentali. Quando guardate il treno che volevate prendere lasciare la stazione, vi sono sia le successive posizioni del treno (effetti fisici) che le successive ondate di rabbia e disappunto (effetti mentali). Le immagini al contrario, sebbene possano produrre movimenti corporei, lo fanno secondo le leggi mnestiche, non secondo le leggi della fisica. Tutti i loro effetti, di qualsiasi natura, seguono le leggi mnestiche. Ma questa differenza è meno adatta allo scopo della definizione che la differenza circa le cause.
Il professor Watson, come logica conseguenza della sua teoria behaviourista, nega del tutto che vi siano fenomeni osservabili come si suppone che siano le immagini. Egli le sostituisce con sensazioni affievolite, e specialmente con la pronuncia sotto voce. Quando “pensiamo” a un tavolo (diciamo), come opposto al vederlo, ciò che accade, secondo lui, è di solito che stiamo compiendo piccoli movimenti della gola e della lingua tali che porterebbero alla pronuncia della parola “tavolo” se fossero più accentuati. Considererò ancora la sua opinione quando tratteremo delle parole; per ora sono solo interessato a combattere la sua negazione delle immagini. Questa negazione è esposta sia nel suo libro "Behavior" che nel suo articolo intitolato "Image and Affection in Behavior" nel "Journal of Philosophy, Psychology and Scientific Methods," vol. x (luglio, 1913). Mi sembra che in questa materia sia stato condotto a negare fatti chiarissimi nell'interesse di una teoria, cioé, la supposta impossibilità dell'introspezione. Mi sono occupato della teoria nella lezione VI; per ora voglio ribadire l'opinione che i fatti sono innegabili.
Le immagini sono di vari tipi, a seconda della sensazione di cui sono copia. Le immagini dei movimenti corporei, come quelli che abbiamo quando immaginiamo di muovere un braccio o, su scala minore, pronunciamo una parola, potrebbero essere spiegate secondo le direttive del professor Watson come in realtà consistenti di piccoli movimenti incipienti tali che, se ampliati e prolungati, darebbero luogo ai movimenti che si sono immaginati. Se ciò sia il caso oppure no deve anche essere deciso sperimentalmente. Se vi fosse un delicato strumento per la registrazione di piccoli movimenti della bocca e della gola, potremmo collocare tale strumento nella bocca di una persona e quindi dirgli di recitare una poesia fra sé e sé, per quanto possibile solo nell'immaginazione. Non sarei affatto sorpreso se si scoprisse che in realtà vi sono dei piccoli movimenti che hanno luogo mentre sta “mentalmente” recitando i versi. Il punto è importante poiché ciò che è chiamato “pensiero” consiste principalmente (sebbene secondo me non totalmente) del discorso interiore. Se il professor Watson è nel giusto riguardo al discorso interiore, l'intero problema è trasferito dall'immaginazione alla sensazione. Ma poiché la questione è suscettibile di decisione sperimentale, sarebbe un'avventatezza gratuita sostenere una opinione mentre manca la decisione.
Ma le immagini visive e uditive sono più difficili da trattare in questo modo, perché mancano della connessione con gli eventi fisici del mondo esterno che appartiene alle sensazioni visive e uditive. Si supponga, per esempio, che stia sedendo in una stanza nella quale vi è una poltrona vuota. Chiudo i miei occhi e richiamo l'immagine visiva di un amico che siede nella poltrona. Se forzo la mia immagine ad appartenere al mondo della fisica, essa contraddice tutte le usuali leggi fisiche. Il mio amico ha raggiunto la sedia senza passare nel solito modo dalla porta; in più una ricerca mostrerebbe che egli era in un altro luogo in quel momento. Se considerata come una sensazione, la mia immagine ha tutte le caratteristiche del soprannaturale. Perciò la mia immagine è considerata come un evento che ha luogo in me, non come avente quella posizione negli avvenimenti ordinati del mondo pubblico che appartengono alle sensazioni. Sostenendo che si tratta di un evento in me, rendiamo possibile che sia causato fisiologicamente: la sua privatezza può essere solo dovuta alla sua connessione con il mio corpo. Ma in ogni caso non si tratta di un evento pubblico, come nel caso di una persona reale che attraversa la porta e si siede sulla mia poltrona. Ed esso non può, come il discorso interiore, essere considerata come una piccola sensazione, poiché occupa nel mio campo visivo proprio l'area che occuperebbe una sensazione reale.
Il professor Watson afferma: “eliminerei del tutto l'immagine e tenterei di mostrare che tutti i pensieri naturali possono essere spiegati in termini di processi senso-motori della laringe”. Questo modo di vedere mi sembra contraddire apertamente l'esperienza. Se provate a persuadere qualche persona non colta del fatto che non può richiamare l'immagine visiva di un amico che siede in una sedia, ma può solo usare delle parole che descrivono come sarebbe tale fatto, concluderà che siete matti. (Questo enunciato è basato sull'esperimento). Galton, com'è risaputo, indagò l'immagine visiva trovando che l'educazione tende ad eliminarla: i membri della Royal Society risultano averne molto meno delle loro mogli. Non vedo ragioni per dubitare della sua conclusione secondo cui l'abitudine a perseguire fini astratti rende gli uomini colti molti inferiori (mediamente) nel potere di visualizzazione, e molto più esclusivamente occupati con le parole nel loro “pensare”. E il professor Watson è una persona molto istruita.
D'ora in poi partirò dal presupposto dell'esistenza delle immagini e che esse siano da distinguere dalle sensazioni tramite le loro cause, così come, in grado minore, tramite i loro effetti. Nella loro natura intrinseca, sebbene esse spesso differiscano dalle sensazioni per il loro essere più sfumate o vaghe o deboli, tuttavia non sempre o universalmente differiscono dalle sensazioni in qualche modo che possa essere usato per definirle. La loro privatezza non costituisce un ostacolo al loro studio scientifico, non più di quanto non lo sia nel caso delle sensazioni. Le sensazioni corporee sono ammesse anche dai più severi critici dell'introspezione, sebbene, come le immagini, esse possano essere osservate da un solo osservatore. Comunque si deve ammettere che le leggi dell'apparizione e sparizione delle immagini sono poco conosciute e difficili da scoprire, perchè non siamo assistiti, come nel caso della sensazione, dalla nostra conoscenza del mondo fisico.
Per quanto concerne le immagini resta un punto molto importante, che ci occuperà molto d'ora in poi, ed è la loro somiglianza a sensazioni precedenti. Esse sono dette essere “copie”delle sensazioni, sempre per quanto riguarda le qualità semplici che le costituiscono, sebbene non sempre riguardo alla maniera in cui queste sono messe assieme. Si crede generalmente che non possiamo immaginare una tonalità di colore che non abbiamo mai visto o un suono che non abbiamo mai udito. Su questo argomento Hume è un classico. Egli dice, nelle definizioni già citate:
“Quelle percezioni che ci colpiscono con maggior forza e violenza possiamo chiamarle impressioni; e sotto questo nome comprendo tutte le nostre sensazioni, passioni ed emozioni, in quanto fanno la loro prima apparizione nell'anima. Con idee intendo le deboli immagini di quelle nel pensare e nel ragionare”.
Quindi egli passa alla spiegazione della differenza fra idee semplici e complesse e spiega che un'idea complessa può occorrere senza nessuna impressione complessa simile. Ma riguardo alle idee semplici egli afferma che “ogni idea semplice ha una impressione semplice che le somiglia, e ogni ogni impressione semplice ha un'idea corrispondente”. Egli prosegue enunciando il principio generale secondo cui “Tutte le nostre idee semplici nel loro primo apparire derivano da impressioni semplici che gli corrispondono e che esse rappresentano esattamente” ("Treatise of Human Nature," Part I, Section I).
È questo fatto, che le immagini assomigliano a sensazioni precedenti, che ci mette in grado di chiamarle immagini “di” questo o quello. Per la comprensione della memoria, e della conoscenza in generale, la somiglianza riconoscibile di immagini e sensazioni è di importanza fondamentale.
Vi sono delle difficoltà nello stabilire i principi di Hume, e dubbi sul fatto che essi siano esattamente veri. Infatti egli stesso segnalò un'eccezione immediatamente dopo aver affermato la sua massima. Cionondimeno è impossibile dubitare che la maggiorparte delle immagini semplici siano copie di sensazioni semplici simili che sono occorse prima, e che lo stesso è vero delle immagini complesse in tutti i casi mnestici come opposti alla mera immaginazione. La nostra capacità di agire in riferimento a ciò che è sensibilmente assente è largamente dovuto a questa caratteristica delle immagini, sebbene, con il progredire dell'educazione, le immagini tendano ad essere sempre più rimpiazzate dalle parole. Diremo di più nelle prossime due lezioni circa l'argomento delle immagini come copie delle sensazioni. Ciò che è stato detto ora serve soltanto a ricordare che questa è la loro caratteristica più notevole.
Non sono affatto sicuro che la distinzione fra immagini e sensazioni sia ultimativamente valida, e sarei lieto di essere convinto che le immagini possono essere ridotte a sensazioni di un tipo particolare. Penso che sia chiaro, comunque, che, per lo meno nel caso delle immagini uditive e visive, esse non differiscono dalle ordinarie sensazioni uditive e visive, e perciò formano una classe riconoscibile di fatti, anche se dovessimo provare che esse vanno considerate come un sottoinsieme delle sensazioni. Ciò è tutto ciò che è necessario per rendere valido l'uso che delle immagini è fatto nel seguito.