LEZIONE I. RECENTI CRITICHE ALLA NOZIONE DI “COSCIENZA”
Ci sono certi fatti che abbiamo l'abitudine di chiamare “mentali”. Tra questi sono esponenti tipici il credere e il desiderare. La definizione esatta della parola “mentale”, spero, emergerà col prosieguo delle lezioni; per ora intenderò con essa qualsiasi fatto sia comunemente chiamato mentale.
In queste lezioni desidero analizzare il più a fondo possibile ciò che realmente avviene quando, e.g., crediamo o desideriamo. In questa prima lezione mi occuperò di rifiutare una teoria che è generalmente sostenunta, e che anch'io in un primo tempo sostenevo: la teoria secondo cui l'essenza di qualsiasi cosa di mentale è una certa e alquanto peculiare entità detta “coscienza”, concepita o come una relazione con oggetti, o come una qualità intrinseca dei fenomeni psichici.
Le ragioni che fornirò contro questa teoria derivano principalmente da autori precedenti. Vi sono due tipi di ragioni, che divideranno la mia lezione in due parti.
(1) Ragioni dirette, derivate dall'analisi e dalle su difficoltà;
(2) Ragioni indirette, derivanti dall'osservazione degli animali (psicologia comparata) e dei folli e isterici (psicoanalisi).
Poche cose, nella filosofia popolare, sono più fermamente stabilite che la distinzione fra mente e materia. Coloro che non sono metafisici di professione sono disposti a confessare di non sapere cosa sia effettivamente la mente, o come la materia sia costituita; ma essi restano convinti che vi è un abisso fra le due, e che entrambe appartengono a ciò che realmente esiste nel mondo. I filosofi, d'altro canto, hanno sostenuto spesso che la materia sia una mera finzione immaginata dalla mente, e talvolta che la mente sia solo una proprietà di un certo tipo di materia. Coloro che sostengono che la mente è la realtà e la materia un sogno cattivo sono chiamati “idealisti” - una parola che ha un significato differente da quello che riveste nella vita ordinaria. Coloro i quali sostengono che la materia sia la realtà e la mente una mera proprietà del protoplasma sono detti “materialisti”. Essi sono stati rari fra i filosofi ma, in certi periodi, comuni fra gli uomini di scienza. Idealisti, materialisti e comuni mortali sono in accordo su un punto: che essi conoscono sufficientemente ciò che significano le parole “mente” e “materia” da essere in grado di condurre il proprio dibattito intelligentemente. Ma è proprio su questo punto intorno al quale essi concordano che mi sembrano essere tutti in errore.
La sostanza di cui il mondo della nostra esperienza è composto è, credo, né mente né materia, ma qualcosa di più primitivo delle due. Sia la mente che la materia sembrano essere composte e la sostanza di cui sono composte risiede in un certo senso fra le due, in un senso oltre entrambe, come un antenato comune. Per quanto concerne la materia ho già esposto le mie ragioni a favore di questo punto di vista in una precedente occasione [1] e non le ripeterò ora. Ma il problema della mente è più difficile ed è proprio tale problema che propongo di discutere in queste lezioni. Una gran parte di ciò che andrò a dire non è originale; invece molto lavoro recente, in vari campi, ha mostrato la necessità di teorie come quelle che sosterrò. Pertanto in questa prima lezione proverò a fornire una breve descrizione del sistema di idee con il quale condurremo la nostra indagine.
Se vi è una cosa che, nell'opinione comune, caratterizza la mente, questa cosa è la “coscienza”. Diciamo di essere “consci” di ciò che vediamo e sentiamo, di ciò che ricordiamo e dei nostri pensieri e sentimenti. Molti di noi credono che tavoli e sedie non siano “consci”. Pensiamo che quando ci sediamo su una sedia noi siamo consapevoli di essere seduti lì, ma la sedia non è consapevole che noi stiamo sedendo su di essa. È indubitabile che si è nel giusto quando si crede che vi sia qualche differenza, sotto tale aspetto, fra noi e la sedia: ciò può essere preso come un fatto e un datum per la nostra ricerca. Ma non appena proviamo a dire quale sia esattamente la differenza incontriamo delle perplessità. La coscienza è ultima e semplice, qualcosa che sia solo da accettare e contemplare? O si tratta di qualcosa di complesso, forse consistente nel nosto modo di comportarci in presenza degli oggetti, oppure, nell'esistenza in noi di cose chiamate “idee” che hanno una certa relazione con gli oggetti, sebbene differiscano da essi, e che sono solo simbolicamente rappresentative di essi? Non è facile rispondere a tali domande; ma finché non sarà stata data risposta non potremo dire di sapere cosa intendiamo dicendo che possediamo “coscienza”.
Prima di considerare le teorie moderne consideriamo la coscienza dal punto di vista della psicologia convenzionale, poiché essa comprende opinioni che incontriamo naturalmente quando iniziamo a riflettere sul soggetto. A tal fine, consideriamo preliminarmente i diversi modi di essere conscio.
In primo luogo vi è il modo della percezione. “Percepiamo” tavoli e sedie, cavalli e cani, i nostri amici, il traffico che passa per la strada – in breve, tutto ciò che riconosciamo attraverso i sensi. Tralascio per ora il problema di sapere se la sensazione pura vada guardata come una forma di coscienza: ciò di cui sto parlando ora è la percezione, dove, in accordo con la psicologia convenzionale, andiamo oltre la sensazione fino alla “cosa” che essa rappresenta. Sentendo il raglio di un asino non sentiamo solo un rumore, ma ci rendiamo conto che proviene da un asino. Vedendo un tavolo non si vede solo una superficie colorata ma ci si rende conto che essa è dura. La somma di questi elementi che vanno oltre la cruda sensazione si dice che costituisca la percezione. Diremo di più più avanti. Per ora vorrei solo notare che la percezione di oggetti è uno degli esempi più ovvi di ciò che chiamiamo “coscienza”. Siamo “coscienti” di tutto ciò che percepiamo.
Consideriamo il prossimo modo, quello della memoria. Se inizio a ricordare cosa ho fatto stamani ciò costituisce una forma di coscienza che differisce dalla percezione poiché riguarda il passato. Esistono vari problemi riguardanti il modo in cui possiamo essere ora consapevoli di ciò che non è più esistente. Di ciò ci occuperemo incidentalmente quanto perverremo all'analisi della memoria.
Dalla memoria a ciò che è chiamato “idea” - non nel senso platonico ma in quello di Locke, Berkeley e Hume, per il quale essa di oppone a “impressione [impressions]” - il passo è breve. Si può essere consapevoli di un amico sia guardandolo sia “pensando” a lui; e tramite il “pensiare” si può essere consapevoli di oggetti che non possono essere visti, come la razza umana o la fisiologia. Il “pensiero”, nel senso più ampio, è una forma di coscienza che consiste di “idee” che si oppongono alle impressioni o ai meri ricordi.
Possiamo concludere il nostro elenco preliminare con la credenza con cui io intendo il modo di essere conscio che può essere vero o falso. Diciamo che un uomo è “conscio di sembrare uno stupido”, con cui intendiamo che egli crede di sembrare uno stupido e che non si sbaglia. Questa è una forma di coscienza che differisce dalle due precedenti. È la forma che fornisce la “conoscenza” in senso stretto, e pure l'errore. È, o almeno così sembra, più complessa delle forme di coscienza precedentemente considerate; sebbene vedremo che non è separabile da esse così come potrebbe sembrare.
Accanto ai modi di essere consci vi sono altre cose che sarebbero ordinariamente chiamate “mentali”, cose come il desiderio, il piacere e il dolore. Questi pongono problemi loro propri che affronteremo nella terza lezione. Ma i problemi più difficili sono quelli che sorgono in relazione ai modi di essere “consci”. Questi modi presi insieme sono chiamati elementi “cognitivi” della mente ed è di essi che ci occuperemo ampiamente nelle prossime lezioni.
C'è un elemento che sembra comune in maniera ovvia ai differenti modi di essere consci, e cioé il fatto che essi sono tutti diretti a oggetti. Siamo consci “di” qualcosa. La coscienza, sembra, è una cosa e ciò di cui siamo consci è un'altra cosa. A meno di aver abbracciato la tesi che non possiamo mai essere consci di nulla che sia fuori dalla nostra mente, dobbiamo ammettere che gli oggetti della coscienza non abbisognano di essere mentali, mentre la coscienza deve esserlo. (Sto trattando l'argomento nell'ambito delle dottrine convenzionali, non sto esprimento le mie proprie opinioni.) Questo essere diretto verso un oggetto è comunemente considerato come tipico di ogni forma di cognizione e talvolta di tutta la vita mentale. Possiamo distinguere due diverse tendenze nella psicologia tradizionale. Vi sono coloro i quali ingenuamente considerano i fenomeni mentali come se fossero fenomeni fisici. Questa scuola di psicologi non tende ad enfatizzare l'oggetto. D'altro canto vi sono coloro il cui primario interesse è il fatto che ci sembra di avere conoscenza e che c'è un mondo intorno a noi di cui siamo consci. Questi uomini sono interessati alla mente a motivo della sua relazione con il mondo, perché se la conoscenza è un fatto, è uno di quelli sicuramente misteriosi. Il loro interesse in psicologia è naturalmente rivolto alla relazione della coscienza con il suo oggetto, un problema che, propriamente, appartiene piuttosto alla teoria della conoscenza.
Possiamo annoverare fra i migliori e più tipici rappresentanti di questa scuola lo psicologo austiaco Brentano, la cui "Psychology from the Empirical Standpoint," [2], sebbene pubblicata nel 1874, è ancora influente ed è stata il punto di partenza di una gran mole di interessante lavoro. Egli scrive (p. 115):
“Ogni fenomeno psichico è caratterizzato da ciò che gli scolastici medievali chiamavano l'inesistenza intenzionale (perciò mentale) di un oggetto, e da ciò che noi, anche se con espressioni piuttosto ambigue, chiameremmo relazione con un contenuto, direzione verso un oggetto (che qui non va inteso come realtà), o obiettività immanente. Ciascuno contiene in sé qualcosa di simile a un oggetto, anche se non tutti allo stesso modo. Nella presentazione qualcosa è presentato, nel giudizio qualcosa è accolto o respinto, nell'amore qualcosa è amato, nell'odio odiato, nel desiderio desiderato, e così via.
Questa inesistenza intenzionale è esclusiva e peculiare dei fenomeni psichici. Nessun fenomeno fisico mostra qualcosa di simile. Possiamo quindi definire i fenomeni psichici dicendo che sono fenomeni contenenti intenzionalmente in sé un oggetto.”
Il punto di vista qui espresso secondo cui la relazione con un oggetto è una caratteristica ultima e irriducibile dei fenomeni mentali è una di quelle contro cui sono impegnato a combattere. Come Brentano, sono interessato alla psicologia, non tanto come fine a se stessa, quanto per la luce che può gettare sul problema della conoscenza. Per molto tempo, come lui, ho creduto che i fenomeni mentali abbiano un riferimento essenziale agli oggetti, possibilmente eccettuando i casi del piacere e del dolore. Ora non ci credo più, anche nel caso della conoscenza. Cercherò di chiarire le mie ragioni per tale rifiuto nel prosieguo del lavoro. Ad un primo sguardo dovrebbe essere evidente che l'analisi della conoscenza è resa più difficile dal rifiuto; ma l'apparente semplicità del punto di vista di Brentano a proposito della conoscenza verrà scoperto, se non sono in errore, incapace di difendersi da un'esame analitico o da una moltitudine di fatti in psicoanalisi e in psicologia animale. Non desidero minimizzare i problemi. Voglio solo osservare, per mitigare i nostri futuri sforzi, che il pensare, comunque sia analizzato, è in se stesso una occupazione piacevole e che non c'è nemico del pensiero che sia così mortale come la falsa semplicità. Viaggiare, sia nel mondo mentale che in quello fisico, è una gioia, ed è bello sapere che, almeno nel mondo mentale, vi sono vaste regioni ancora troppo imperfettamente esplorate.
Il punto di vista espresso da Brentano è stato ampiamente sostenuto e sviluppato da molti scrittori. Tra questi possiamo prendere come esempio il suo successore austriaco Meinong [3]. Secondo lui vi sono tre elementi coinvolti nel pensare a un oggetto. Questi tre li chiama atto, contenuto e oggetto. L'atto è lo stesso in ogni coppia di casi dello stesso tipo di coscienza; ad esempio, se io penso a Smith o penso a Brown l'atto di pensare, in se stesso, è esattamente simile in entrambe le occasioni. Ma il contenuto del mio pensiero, il particolare evento che è accaduto nella mia mente, è differente quando penso a Smith e quando penso a Brown. Il contenuto, sostiene Meinong, non deve essere confuso con l'oggetto, poiché il contenuto deve esitere nella mente nel momento in cui si ha il pensiero, mentre l'oggetto non abbisogna di ciò. L'oggetto può essere qualcosa di passato o di futuro; può essere fisico, non mentale; può essere qualcosa di astratto, come l'uguaglianza per esempio; può essere qualcosa di immaginario, come una montagna d'oro; o può anche essere qualcosa di contraddittorio, come un circolo quadrato. Ma in tutti questi casi, egli sostiene, il contenuto esiste quando esiste il pensiero, ed è ciò che, all'occorrenza, lo distingue da altri pensieri.
Per concretizzare questa teoria supponiamo di pensare alla cattedrale di S. Paolo. Allora secondo Meinong dobbiamo distinguere tre elementi che sono necessariamente combinati nel costituire il pensiero. Prima di tutto vi è l'atto di pensare che è identico qualsiasi sia la cosa a cui si sta pensando. Quindi c'è ciò che fornisce il carattere al pensiero rispetto ad altri pensieri; questo è il contenuto. E infine vi è la cattedrale di S. Paolo che è l'oggetto del nostro pensiero. Ci deve essere una differenza tra il contenuto del pensiero e ciò su cui verte, poiché il pensiero è qui e ora mentre l'oggetto può non esistere; infatti è chiaro che il pensiero non è identico con la cattedrale di S. Paolo. Questo sembra dimostrare che dobbiamo distinguere tra contenuto e oggetto. Ma se Meinong ha ragione, non vi potrà essere pensiero senza l'oggetto: i tre elementi dell'atto, del contenuto e dell'oggetto sono tutti richiesti al fine di costituire quel singolo fatto che è detto “pensare alla cattedrale di S. Paolo”
Questa analisi di un pensiero, sebbene credo sia in errore, è molto utile in quanto fornisce uno schema nei termini del quale possono essere formulate altre teorie. Nel prosieguo della lezione esporrò il punto di vista che sostengo e mostrerò come altri punti di vista da cui il mio è derivato risultino dalla modifica della triplice analisi in atto, contenuto e oggetto.
La prima critica è che l'atto non sembra necessario ma fittizio. Il fatto coincidente con il contenuto del pensiero costituisce l'occorrenza del pensiero. Empiricamente non posso scoprire nulla che corrisponda all'atto supposto; e teoreticamente non ne vedo l'indispensabilità. Diciamo: “Io penso così e così” e la parola “io” suggerisce che il pensare sia l'atto di una persona. L'”atto” di Meinong è lo spettro del soggetto, o di ciò che fu l'anima incarnata. Bisogna supporre che i pensieri non possano andare e venire, ma abbisognano di una persona che li pensi. Ora è chiaramente vero che i pensieri possono essere raggruppati in fasci, di modo che un fascio sono i miei pensieri, un altro i tuoi e un terzo i pensieri di Mr. Jones. Ma io penso che la persona non sia un ingrediente del singolo pensiero: egli è piuttosto costituito dalle relazioni dei pensieri fra loro e con il corpo. Questo è un problema ampio che non ci interessa per ora. Ciò che ci interessa è che le forme grammaticali “io penso”, “tu pensi” e “Mr. Jones pensa” sono fuorvianti se considerate come l'analisi di un singolo pensiero. Sarebbe meglio dire “si pensa in me” come si dice “piove qui”; o meglio ancora “c'è un pensiero in me.” Tutto ciò semplicemente si fonda sul fatto che non si può scoprire empiricamente ciò che Meinong chiama atto nel pensare e che esso non è deducibile da ciò che possiamo osservare.
La critica successiva riguarda la relazione del contenuto e dell'oggetto. Il riferimento dei pensieri agli oggetti non è la cosa, io credo, semplice diretta ed essenziale che Brentano e Meinong ci rappresentano. Mi sembra essere derivato e consistere largamente di credenze: credenze che ciò che costituisce il pensiero è connesso con vari altri elementi che insieme costituiscono l'oggetto. Supponiamo di avere un'immagine della cattedrale di S. Paolo, o anche solo l'espressione “St. Paul's” nella nostra testa. Si crede, sebbene in maniera vaga e opaca, che ciò sia connesso con quello che si sarebbe visto se ci si fosse recati alla cattedrale di S. Paolo o con ciò che si sarebbe sentito toccando le sue pareti; è anche connesso con ciò che altre persone vedono e sentono, con i servizi e col Diacono e col Capitolo e con Sir Christopher Wren. Queste cose non sono solo vostri pensieri ma il vostro pensiero è in una relazione con essi di cui voi siete più o meno consci. La coscienza di questa relazione è un ulteriore pensiero, e costituisce la vostra tendenza a credere che il pensiero originale avesse un “oggetto”. Ma nell'immaginazione pura si possono avere pensieri molto simili che non siano accompagnate da quelle credenze; e in questo caso i vostri pensieri non hanno oggetti né sembrano averne. In tali circostanze si ha contenuto senza oggetto. D'altro canto per quanto concerne il vedere e l'udire sarebbe meno fuorviante dire che si ha oggetto senza contenuto poiché ciò che si vede o è udito è attualmente parte del mondo fisico, sebbene non sia materia nel senso della fisica. Così l'intera questione della relazione dei fatti mentali agli oggetti si presenta molto complicata, e non può essere risolta considerando come essenza del pensiero il suo riferimento agli oggetti. Tutte le osservazioni di cui sopra sono meramente preliminari e saranno spiegate più tardi.
Parlando in termini comuni e non filosofici dobbiamo dire che il contenuto di un pensiero è qualcosa nella vostra testa quando pensate il pensiero, mentre l'oggetto è usualmente qualcosa nel mondo esterno. È stato sostenuto che la conoscenza del mondo esterno è costituita dalla relazione con l'oggetto, mentre il fatto che la conoscenza è differente da ciò che essa conosce è dovuto al fatto che la conoscenza proviene dai contenuti. Possiamo iniziare esponendo la differenza fra realismo e idealismo in termini di questa opposizione di contenuto e oggetto. Parlando con molta approssimazione, possiamo dire che l'idealismo tende a sopprimere l'oggetto, mentre il realismo tende a sopprimere il contenuto. Secondo l'idealismo niente può essere conosciuto eccetto i pensieri e tutta la realtà che conosciamo è mentale; invece il realismo sostiene che conosciamo gli oggetti direttamente per lo meno nella sensazione e forse anche nella memoria e nel pensiero. L'idealismo non afferma che niente può essere conosciuto al di là del pensiero presente ma sostiene che il contesto della vaga credenza di cui abbiamo parlato in connessione con il pensiero della cattedrale di S. Paolo porta solo ad altri pensieri, mai a qualcosa di radicalmente diverso dai pensieri. La difficoltà di questo punto di vista è in relazione alla sensazione dove sembra che si venga in diretto contatto con il mondo esterno. Ma il modo berkeleyano di affrontare questa difficoltà è così familiare che non ho bisogno di dilungarmi ora. Vi tornerò in una lezione successiva e osserverò soltanto, per ora, che mi sembra che non ci siano fondamenti per considerare ciò che vediamo e udiamo come non facente parte del mondo fisico.
D'altro canto i realisti di norma sopprimono il contenuto e sostengono che un pensiero consiste o solo di atto e oggetto o del solo oggetto. In passato sono stato realista e rimango realista riguardo alle sensazioni ma non riguardo alla memoria e al pensiero. Proverò a spiegare quelle che mi sembrano essere le ragioni pro e contro vari tipi di realismo.
Il moderno idealismo, riguardo alla conoscenza, ritiene di non essere confinato al pensiero presente o al presente pensatore; invece esso sottolinea che il mondo è così organico e ben collegato che si può inferire il tutto da una porzione, come si può inferire da un osso lo scheletro completo di un animale estinto. Ma la logica di cui ci si serve per dimostrare la supposta natura organica del mondo appare infondata ai realisti come a me. Essi fanno notare che se non possiamo conoscere il mondo fisico direttamente non possiamo realmente conoscere nulla fuori dalle nostre menti: il resto del mondo potrebbe essere solamente un nostro sogno. Questo è un triste punto di vista e pertanto essi cercano dei modi per evitarlo. Conseguentemente sostengono che nella conoscenza siamo in contatto diretto con l'oggetto che può essere, ed usualmente è, al di fuori delle nostre menti. Non vi è dubbio che essi sono condotti a tale punto di vista in primo luogo dai pregiudizi, cioé dal desiderio di pensare che essi possano conoscere l'esistenza di un mondo al di fuori di essi. Ma dobbiamo considerare non ciò che li ha portati a desiderare il loro punto di vista, ma se i loro argomenti a suo sostegno siano validi.
Vi sono due differenti generi di realismo, a seconda che noi consideriamo un pensiero come consistente di atto e oggetto oppure dell'oggetto soltanto. Le loro difficoltà sono differenti ma nessuna delle due è del tutto sostenibile. Prendiamo, per amor di precisione, il ricordo di un evento passato. Il ricordare occorre ora ed è perciò necessariamente diverso dall'evento passato. Fintanto che accettiamo l'atto ciò non causa difficoltà. L'atto di ricordare occorre ora e ha una certa relazione essenziale con l'evento passato di cui è memoria. Non vi è obiezione logica a questa teoria ma c'è l'obiezione, di cui parleremo presto, secondo cui l'atto sembra qualcosa di mitico e non può essere trovato tramite l'osservazione. D'altro canto se proviamo a costituire la memoria senza l'atto perveniamo a un contenuto poiché dobbiamo avere qualcosa che accade ora in opposizione all'evento accaduto nel passato. Così quando si rifiuta l'atto, cosa che penso vada fatta, siamo condotti a una teoria della memoria che è affine all'idealismo. Ad ogni modo questi argomenti non si applicano alla sensazione. Penso che sia specialmente la sensazione ad essere considerata da quei realisti che accettano solo l'oggetto [4]. Le loro opinioni, che sono diffuse principalmente in America, sono in larga misura derivate da William James e prima di proseguire sarà bene considerare la dottrina rivoluzionaria da egli sostenuta. Credo che questa dottrina contenga un'importante verità e ciò che andrò a dire sarà ispirato in maniera considerevole da essa.
Il punto di vista di William James fu dapprima esposto in un saggio intitolato “Esiste la 'coscienza'?”[5]. In questo saggio spiega come l'anima sia stata gradualmente trasformata fino a divenire “Io trascendentale”, il quale, egli sostiene, “si attenua fino a ridursi a una condizione puramente spirituale, essendo solo un nome per il fatto che il 'contenuto' dell'esperienza è conosciuto. Essa perde forma e attività – le quali passano al contenuto – e diventa un puro Bewusstheit o Bewusstsein ŭberhaupt di cui niente di vero può essere detto. Credo (egli continua) che la 'coscienza', dopo essersi ridotta per evaporazione a un tale stato di diafanità, sia sul punto di sparire del tutto. È il nome di una non-entità, e non ha il diritto di risiedere tra i primi principi. Coloro che gli rimangono fedeli si stanno aggrappando ad una mera eco, il fievole rumore lasciato nell'aria filosofica dallo sparire dell''anima'”(p. 2).
Egli spiega che questo non è un improvviso cambio delle sue opinioni. “durante gli scorsi venti anni” egli dice, “non ho creduto nella 'coscienza' quale entità; durante gli scorsi sette o otto anni ho suggerito la sua non-esistenza ai miei studenti provando a dar loro l'equivalente pragmatico nella realtà dell'esperienza. Mi sembra che il momento sia maturo per rifiutarla apertamente e universalmente” (p. 3).
Il suo successivo intento è di eliminare l'impressione di paradosso, poiché James non fu mai intenzionalmente paradossale. “Innegabilmente”, egli dice, “ 'i pensieri' esistono”. “Intendo solo negare che la parola stia per una entità e instistere enfaticamente che essa sta per una funzione. Non c'è, io credo una sostanza originaria o una qualità dell'essere in contrasto con quella di cui sono fatti gli oggetti materiali, di cui i nostri pensieri di essi siano fatti; ma vi è nell'esperienza una funzione svolta dai pensieri e per il cui svolgimento è invocata tale qualità dell'essere. Questa funzione è la conoscenza” (pp. 3-4).
Il punto di vista di James è che il materiale grezzo di cui è costituito il mondo non è di due tipi, uno la materia e l'altro la mente, ma che il materiale sia disposto in differenti schemi a ragione delle sue inter-relazioni, e che qualche disposizione può essere chiamata mentale, mentre altre possono essere chiamate fisiche.
“La mia tesi è”, egli dice, “che se partiamo col supporre che vi sia una sola sostanza originaria o materiale nel mondo, una sostanza di cui ogni cosa è composta, e se chiamiamo tale sostanza 'pura esperienza' allora la conoscenza può essere più facilmente spiegata come un particolare tipo di relazione tra porzioni dell'esperienza pura. La relazione stessa fa parte dell'esperienza pura; uno dei suoi 'temini' diventa il soggetto o portatore della conoscenza, il conoscente, l'altro diventa l'oggetto conosciuto” (p. 4).
Dopo aver menzionato la dualità di soggetto e oggetto che si suppone costituisca la coscienza egli continua in corsivo: “L'esperienza, credo, non possiede intrinsecamente questa dualità; e la sua separazione in coscienza e contenuto è ottenuta non per via di sottrazione ma per via di addizione” (p. 9).
Egli illustra il suo intento per analogia menzionando il colore così come appare nel negozio e così come appare in un dipinto: nel primo caso è solo una “materia di vendita”, mentre nell'altro esso “riveste una funzione spirituale. Nello stesso modo io sostengo (egli prosegue) che una certa porzione indivisa dell'esperienza, presa in un contesto di associati, riveste il ruolo di conoscente, di stato della mente, di 'coscienza'; mentre in un contesto differente la stessa indivisa quantità di esperienza riveste il ruolo di cosa conosciuta, di un 'contenuto' obiettivo. In una parola, in un gruppo essa figura come pensiero, in un altro gruppo come una cosa” (pp. 9 - 10).
Egli non crede nella supposta immediata certezza del pensiero. “Negli altri sia ciò che sia”, egli dice, “io sono sicurissimo che in me il flusso del pensiero (che chiaramente riconosco come un fenomeno) è solo un nome improprio per ciò che, una volta fatta l'analisi, risulta essere principalmente il flusso del mio respiro. L' 'Io penso' che Kant dice debba essere in grado di accompagnare tutti i miei oggetti, è l''Io respiro' che attualmente le accompagna” (pp. 36 - 37).
Lo stesso punto di vista a proposito della “coscienza” è esposto nel saggio successivo, “A World of Pure Experience" (ib., pp. 39-91). L'uso della espressione “esperienza pura” in entrambi i saggi indica l'influenza dell'idealismo. “L'esperienza” come la “coscienza” deve essere un prodotto non parte della sostanza primaria del mondo. Deve essere possibile, se James è nel giusto, che la stessa sostanza differentemente disposta non dia origine a nulla che possa essere chiamato “esperienza”. Questa parola è stata abbandonata dai realisti americani tra i quali possiamo menzionare in particolare il professor R. B. Perry di Harvard e Mr. Edwin B. Holt.
Gli interessi di questa scuola sono rivolti alla filosofia teoretica e alla filosofia della scienza piuttosto che alla psicologia; essi hanno ricevuto un grosso impulso da James, ma hanno più interesse di lui nella logica, la matematica e la parte astratta della filosofia. Essi parlano di entità “neutre” come sostanza della quale sia la mente che la materia sono costituite. Così Holt dice: “se i termini e le proposizioni della logica devono essere sostanzializzate, esse sono solo di una sostanza, il cui nome meno scorretto è sostanza-neutra [neutral- stuff]. La relazione della sostanza-neutra con la materia e la mente sarà oggetto di ampia trattazione.” [6]
La mia opinione – i motivi della quale saranno evidenti nelle successive lezioni – è che James ha ragione nel rifiutare la coscienza come entità e che i realisti americani sono parzialmente dalla parte della ragione, sebbene non del tutto, nel sostenere che sia la mente che la materia siano composte da una sostanza neutra la quale isolatamente non è né mentale né materiale. Ammetterei questo punto di vista in relazione alle sensazioni: ciò che è udito o visto appartiene ugualmente alla psicologia e alla fisica. Ma direi che le immagini appartengono solo al mondo del mentale mentre quei fatti (se ce ne è qualcuno) che non costituiscono una parte di qualche “esperienza” appartengono solo al mondo fisico. Vi sono, mi sembra, prima facie, differenti generi di leggi causali, alcune appartenenti alla fisica, altre alla psicologia. La legge di gravitazione, per esempio, è una legge fisica, mentre la legge di associazione è una legge psicologica. Le sensazioni sono soggette ad entrambi i generi di leggi e sono perciò autenticamente “neutri” nel senso di Holt. Ma le entità soggette solo alle leggi fisiche, o solo alle leggi psicologiche, non sono neutre e possono essere chiamate rispettivamente puramente materiali e puramente mentali. Nonostante ciò, comunque, ciò che è puramente mentale non avrà quel riferirsi intrinsecamente all'oggetto che Brentano gli conferisce e che costituisce l'essenza della “coscienza” così come ordinariamente risulta compresa. Ma è ora arrivato il momento di passare ad altre tendenze moderne, pure ostili alla “coscienza”.
C'è una scuola psicologica detta “comportamentismo [behaviourists]” il cui esponente principale è il professor John B. Watson, [7] della Johns Hopkins University. A questa scuola appartiene inoltre il professor John Dewey che, con James e il Dr. Schiller, è stato uno dei tre fondatori del pragmatismo. Il punto di vista dei “comportamentisti” è che niente può essere conosciuto se non tramite l'osservazione esterna. Essi complessivamente negano che vi sia una fonte separata di conoscenza detta “introspezione” tramite la quale possiamo conoscere cose circa noi stessi che non potremmo mai osservare negli altri. Essi non negano che nelle nostre menti possano esserci ogni sorta di entità: essi sostengono soltanto che tali cose, se esistono, non sono suscettibili di osservazione scientifica e perciò non interessano la psicologia in quanto scienza. La psicologia come scienza, sostengono, ha per oggetto solo il comportamento, i.e. ciò che facciamo; questo solo, ribadiscono, può essere accuratamente osservato. Se nel frattempo noi pensiamo, essi ci dicono, non è possibile saperlo; nella loro osservazione del comportamento degli esseri umani non hanno ancora trovato alcuna prova del pensiero. In verità noi parliamo molto, e si immagina che facendo ciò mostriamo di stare pensando; ma i comportamentisti sostengono che il discorso debba essere spiegato senza supporre che le persone pensino. Quando ci si aspetterebbe un capitolo sui “processi di pensiero” si viene invece introdotti in un capito su “L'abitudine linguistica”. È umiliante rendersi conto di quanto terribilmente adeguata questa ipotesi risulti essere.
Comunque il comportamentismo non è sorto dall'osservazione della follia umana. È la saggezza degli animali che ha suggerito il punto di vista. È sempre stato un luogo della discussione comune il chiedersi se gli animali “pensano”. Su questo argomento le persone sono pronte a prendere posizione senza avere la più vaga idea di cosa intendere per “pensare”. Coloro i quali desideravano indagare tali problemi furono portati ad osservare il comportamento degli animali nella speranza che il loro comportamento gettasse qualche luce sulle loro facoltà mentali. Di primo acchito può sembrare che sia così. Le persone dicono che un cane “conosce” il suo nome perché arriva quando viene chiamato e che “ricorda” il suo padrone perché sembra triste in sua assenza ma scodinzola e abbaia quando egli ritorna. Che il cane si comporti in questo modo è materia di osservazione ma che “conosca” o “ricordi” qualcosa è un'inferenza e infatti una inferenza molto dubbia. Più tali inferenze sono esaminate e più precarie appaiono essere. Perciò lo studio del comportamento animale ha gradualmente abbandonato tutti i tentativi di interpretazione mentalistica [del comportamento]. E non si può dubitare che in molti casi di comportamento complicato molto ben adatto a i suoi fini non ci può essere nessuna previsione di questi fini. La prima volta che un uccello costruisce un nido è difficile supporre che esso sappia che vi deporrà le uova, o che le coverà o che da esse nasceranno gli uccellini. Esso fa quello che fa ad ogni stadio perché l'istinto gli fornisce l'impulso a fare proprio quello, non perché preveda e desideri il risultato delle proprie azioni [8].
Gli osservatori attenti degli animali, essendo ansiosi di evitare inferenze precarie, hanno gradualmente scoperto come rendere conto delle azioni degli animali senza presumere qualla che chiamiamo “coscienza”. Ai comportamentisti è sembrato che simili metodi possano essere applicati al comportamento umano senza presumere niente che non sia suscettibile di osservazione esterna. Diamo un esempio semplice, troppo semplice per gli autori in questione, ma in grado di rivelarci cosa essi intendessero. Si supponga che a due bambini in una scuola si chieda “quanto fa sei per nove?. Uno risponde cinquantaquattro e l'altro cinquantasei. Diciamo che il primo “conosce” quanto faccia sei per nove, mentre l'altro no. Ma tutto ciò che possiamo osservare è una certa abitudine linguistica. Il primo bambino ha acquisito l'abitudine di dire “sei per nove fa cinquantaquattro”; l'altro non l'ha fatto. Non c'è più bisogno del “pensiero” in ciò di quanto ve ne sia per spiegare che il cavallo torna alla sua solita stalla; vi sono solo abiti più numerosi e complicati. Ovviamente è un fatto osservabile quello chiamato “sapere” una determinata cosa; gli esami sono esperimenti per scoprire fatti di questo tipo. Ma tutto ciò che è osservato e scoperto è un certo insieme di abitudini nell'uso delle parole. I pensieri (se esistenti) nella mente dell'esaminato non sono interessanti per l'esaminatore; né l'esaminatore ha qualche ragione di supporre che anche il più brillante degli esaminati sia capace della più piccola quantità di pensiero.
Così ciò che è chiamato “conoscere” nel senso nel quale ci possiamo accertare del fatto che gli altri “conoscono” è un fenomeno esemplificato nel loro comportamento fisico, incluso il parlare e le parole scritte.
Non vi è ragione – così sostiene Watson – per supporre che la loro conoscenza sia qualcosa oltre alle abitudini mostrate in questo comportamento: l'inferenza per la quale le altre persone hanno qualcosa di non fisico chiamato “mente” o “pensiero” è perciò infondata.
Finora non c'è niente di particolarmente ripugnante ai nostri pregiudizi nelle conclusioni dei comportamentisti. Vogliamo tutti ammettere che le altre persone non hanno pensiero. Ma quando si arriva a noi stessi siamo convinti di poter effettivamente percepire il nostro proprio pensiero. “Cogito, ergo sum” sarebbe considerato dalla maggiorparte delle persone come avente una premessa vera. Ciò tuttavia è negato dal comportamentista. Egli sostiene che la conoscenza di noi stessi non è differente in quanto al genere dalla nostra conoscenza delle altre persone. Possiamo vedere di più perché il nostro corpo è più facile da osservare rispetto a quello delle altre persone; ma non vediamo niente di radicalmente dissimile da quello che vediamo negli altri.
L'introspezione come fonte separata di conoscenza è fieramente negata dagli psicologi di questa scuola. Discuterò questo problema con ampiezza in una prossima lezione; per ora osserverò soltanto che esso non è affatto semplice e che sebbene creda che i comportamentisti talvolta esagerino, tuttavia vi è un importante elemento di verità nelle loro posizioni, poiché le cose che possiamo scoprire tramite l'introspezione non sembrano differire in qualche modo fondamentale dalle cose che possiamo scoprire con l'osservazione esterna.
Finora ci siamo occupati prevalentemente del conoscere. Ma potrebbe ben essere sostenuto che sia il desiderare che è in realtà più caratteristico della mente. Gli esseri umani sono costantemente impegnati nel perseguire qualche scopo: sentono piacere per il successo e dispiacere per il fallimento. In un mondo puramente materiale, si potrebbe dire, non ci dovrebbe essere opposizione fra piacevole e spiacevole, buono e cattivo, fra ciò che è desiderato e ciò che è temuto. Le azioni di un uomo sono governate da scopi. Supponiamo che un uomo decida di recarsi in un certo luogo, conseguentemente si reca alla stazione, acquista il biglietto e sale sul treno. Se la strada usuale è bloccata da un incidente, prende qualche altra strada. Tutto ciò che fa è determinato – o così sembra -- dal fine che ha in vista, da ciò che sta davanti a lui piuttosto che ciò che gli sta dietro. Con la materia morta le cose non vanno così. Una pietra alla sommità di una collina può iniziare a rotolare ma non mostra pertinacia nel provare a raggiungere il fondo. Qualche sporgenza o ostacolo lo fermerà e se ciò accade essa non esibirà segni di scontentezza. Essa non è attratta dalla piacevolezza della vallata, come potrebbero esserlo una pecora o una mucca, ma è spinto dalla pendenza della collina nel punto in cui si trova. In tutto ciò abbiamo le differenze caratteristiche fra il comportamento degli animali e il comportamento della materia studiato dalla fisica.
Il desiderio, come la conoscenza, naturalmente è in qualche senso un fenomeno osservabile. Un elefante mangerà una focaccia ma non una costoletta di castrato; un'anatra entrerà nell'acqua mentre una gallina non lo farà. Ma quando noi pensiamo ai nostri stessi desideri molte persone credono che si possa conoscerli tramite un'immediata conoscenza-di-sé [self-knowledge] che non dipende dall'osservazione delle nostre azioni. Eppure se così stessero le cose sarebbe strano che le persone si sbaglino così spesso a proposito dei propri desideri.
È una materia di comune osservazione che “il tal dei tali non conosce le proprie motivazioni” o che “A è invidioso di B e malevolo nei suoi confronti ma è completamente inconsapevole di essere così”. Tali persone sono chiamate dissimulatori [self-deceivers] e si suppone che siano passate attraverso un processo più o meno elaborato per celare a se stessi ciò che altrimenti sarebbe stato ovvio. Penso che questo sia un errore. Credo che la scoperta dei nostri propri motivi possa essere compiuta solo tramite gli stessi processi con i quali noi scopriamo quelli degli altri, cioé il processo di osservare le nostre azioni e inferire il desiderio che le ha originate. Un desiderio è “conscio” quando ci siamo detti di averlo. Un uomo affamato può dire a se stesso: “Oh, voglio il mio pranzo”. Allora il suo desiderio è “conscio”. Ma esso differisce da un desiderio “inconscio” solo per la presenza delle parole appropriate, il che non è affatto una differenza fondamentale.
La credenza che una motivazione sia normalmente conscia rende più semplice sbagliarsi a proposito delle proprie motivazioni e di quelle degli altri. Quando ci viene attribuito qualche desiderio di cui dovremmo vergognarci noi ci accorgiamo di non averlo mai avuto consciamente nel senso di aver detto a noi stessi “voglio che accada”. Pertanto noi cerchiamo qualche altra interpetrazione delle nostre azioni e consideriamo i nostri amici veramente ingiusti quando rifiutano di restar persuasi dal nostro rifiuto di ciò che noi sosteniamo essere una calunnia. Le considerazioni morali accrescono notevolmente la difficoltà di pensare chiaramente in questo campo.
Si sostiene comunemente che le persone non sono da incolpare per le loro motivazioni inconscie ma solo per quelle conscie. Perciò al fine di essere del tutto virtuosi è solo necessario ripetere formule di virtù. Diciamo “Desidero essere gentile con i miei amici, onesto negli affari, filantropico nei confronti dei poveri, ispirato da senso civico in politica”. Fintanto che rifiutiamo di ammettere a noi stessi, anche nelle veglie notturne, qualche altro desiderio contrario, possiamo essere dei prepotenti a casa, disonesti nella City, spilorci nel pagare i salari e profittatori nel trattare con il pubblico; eppure se solo le motivazioni conscie devono contare per le valutazioni morali noi rimarremo personaggi modello. Si tratta di una piacevole dottrina e non ci sorprende che gli uomini siano restii ad abbandonarla. Ma le considerazioni morali sono i peggiori nemici dello spirito scientifico e dobbiamo liberare da esse le nostre menti se desideriamo pervenire alla verità.
Io credo che il desiderio – come proverò a dimostrare in una successiva lezione – come la forza in meccanica, abbia la natura di una conveniente finzione istituita al fine di descrivere con maggior brevità certe leggi del comportamento. Un animale affamato è iperattivo finché non trova del cibo; quindi diviene tranquillo. La cosa che porterà alla conclusione una condizione di iperattività è detta esssere ciò che è desiderato. Ma solo l'esperienza può mostrare cosa avrà quest'effetto sedativo ed è facile fare errori. Sentiamo insoddisfazione e pensiamo che la tale cosa la estinguerà; ma nel pensare questo stiamo teorizzando non osservando un fatto evidente. Il nostro teorizzare è spesso sbagliato e quando è sbagliato c'è una differenza tra cosa pensiamo di desiderare e ciò che in effetti porterà soddisfacimento. Questo è un fenomeno comune, e ogni teoria del desiderio che non riesca a renderne conto dovrà essere errata.
Quelli che sono stati chiamati desideri “inconsci” sono venuti alla ribalta in anni recenti grazie alla psicoanalisi. La psicoanalisi, come tutti sanno, è in primo luogo un metodo per capire l'isteria e certe forme di follia [9]; ma si è compreso che vi è molto nelle nostre vite di uomini e donne ordinari che possiede una umiliante somiglianza con le fissazioni dei folli. La connessione fra i sogni le credenze irrazionali e le azioni insensate con desideri inconsci è stata portato alla luce, sebbene con qualche esagerazione, da Freud, Jung e i loro seguaci. Riguardo alla natura di questi desideri inconsci, mi sembra – sebbene da persona inesperta parli con esitazione – che molti psicoanalisti abbiano vedute essessivamente ristrette; senza dubbio i desideri che enfatizzano esistono, ma anche altri, e.g. l'onore e il potere, sono ugualmente operativi e tendono ugualmente a celarsi. Comunque ciò non inficia il valore delle loro teorie generali dal punto di vista della psicologia teoretica, ed è da questo punto di vista che i loro risultati sono importanti per l'analisi della mente.
Penso che ciò che è stato chiaramente stabilito è che le azioni e le credenze di un uomo possono essere interamente dominate da un desiderio che sia completamente inconscio e che egli ripudia con indignazione quando gli viene suggerito. Tale desiderio, nei casi morbosi, è di un tipo che il paziente considererebbe malvagio; se dovesse ammettere di avere il desiderio si odierebbe. Eppure esso è così forte che esige una via di sfogo; perciò diventa necessario sostenere un intero sistema di false credenze al fine di nascondere la natura di quanto è desiderato. Le risultanti fissazioni in molti casi scompaiono se l'isterico o il maniaco sono messi di fronte ai fatti che li riguardano. La conseguenza di ciò è che il trattamento di molte forme di follia è divenuto più psicologico e meno fisiologico.
Coloro che trattano le fissazioni, invece che cercare un difetto fisico del cervello, cercano il deriderio represso che ha trovato tale modo contorto di espressione. A quelli che non desiderano tuffarsi nelle teorie talvolta ripugnanti e spesso piuttosto azzardate dei pionieri della psicoanalisi, segnaliamo il libricino del Dr. Bernard Hart intitolato "The Psychology of Insanity."[10] Il Dr. Hart, a proposito di questa questione dello studio mentale come opposto a quello fisiologico delle cause della follia, scrive:
“La concezione psicologica [della follia] è basata sull'opinione secondo cui i processi mentali possono essere direttamente studiati senza nessun riferimento ai concomitanti cambiamenti che si presume abbiano luogo nel cervello e che la follia può perciò essere appropriatamente trattata dal punto di vista della psicologia” (p. 9)
Ciò illustra un punto che desidero subito chiarire. Ogni tentativo di classificare i punti di vista moderni, che io intendo difendere, dal vecchio punto di vista del materialismo e dell'idealismo è solo fuorviante. Sotto certi aspetti i punti di vista che difenderò si avvicinano al materialismo; sotto altri aspetti essi si avvicinano al suo opposto. Riguardo a questa questione dello studio delle fissazioni, l'effetto pratico delle teorie moderne, come il Dr. Hart sottolinea, è l'emancipazione dal metodo materialista. D'altro canto, come egli anche sottolinea (pp. 38-9), l'imbecillità e la demenza devono ancora essere considerate fisiologicamente come causate da difetti del cervello. In ciò non vi è contraddizione. Se, come sosteniamo, la mente e la materia non sono la sostanza effettiva di cui è costituita la realtà ma differenti modi convenienti per raggruppare un materiale sottostante allora, chiaramente, il problema se riguardo a un certo fenomeno dobbiamo cercare una causa fisica o una mentale è solo uno che vada deciso tramite l'esperimento. I metafisici hanno disputato senza fine circa l'interazione di mente e materia. I successori di Descartes sostengono che la materia e la mente sono così differenti da rendere ogni azione dell'una sull'altra impossibile. Quando voglio muovere il braccio non è la mia volontà che opera sul mio braccio ma Dio, il quale, in virtù della Sua onnipotenza, muove il mio braccio quando voglio che si muova. La dottrina moderna del parallelismo psicofisico non è apprezzabilmente differente da questa teoria della scuola cartesiana. Il parallelismo psico-fisico è la teoria secondo cui gli eventi mentali e quelli fisici hanno rispettivamente cause nei loro ambiti, ma procedono fianco a fianco a motivo del fatto che ogni stato del cervello coesiste con uno stato definito della mente, e viceversa. Questa visione della reciproca indipendenza causale della mente e della materia non ha basi eccetto che in una teoria metafisica [11]. Per quanto ci riguarda, non è necessario fare una tale assunzione che è molto difficile da armonizzare con fatti ovvi. Ricevo una lettera che mi invita a cena: la lettera è un fatto fisico, ma la mia comprensione del suo significato è mentale. Qui abbiamo un effetto della materia sulla mente. Come conseguenza della mia comprensione del significato della lettera vado nel posto giusto al momento giusto; qui abbiamo un effetto della mente sulla materia. Cercherò di persuadervi, nel corso di queste lezioni, che la materia non è così materiale e la mente non è così mentale come si suppone generalmente. Quando parleremo della materia sembrerà che noi si abbia inclinazione per l'idealismo; quando parleremo della mente sembrerà che incliniamo al materialismo. Nessuna delle due cose è vera. Il nostro mondo risulta da ciò che i realisti americani chiamano entità “neutre” che non hanno né la durezza e indistruttibilità della materia, né il riferimento a oggetti che si suppone caratterizzi la mente.
C'è, è vero, una obiezione che può essere sostenuta non nei riguardi dell'azione della materia sulla mente ma riguardo all'azione della mente sulla materia. Le leggi della fisica, si può affermare, sono apparentemente adeguate a spiegare qualsiasi cosa accada alla materia anche nel caso si tratti della materia di un cervello umano. Ciò, comunque, è solo una ipotesi, non una teoria stabilita. Non ci sono ragioni empiriche cogenti per supporre che le leggi che determinano i moti dei corpi viventi siano esattamente le stesse di quelle che si applicano alla materia morta. Talvolta, naturalmente, essi sono chiaramente le stesse. Quando un uomo cade da un precipizio o scivola su una buccia di arancia, il suo corpo si comporta come se fosse privo di vita. Questi sono i fatti che fanno ridere Bergson. Ma quando i movimenti del corpo di un uomo sono quello che diciamo “volontari”, essi, almeno prima facie, sono molto differenti nelle loro leggi dai movimenti di ciò che è privo di vita. Non desidero dire dogmaticamente che la differenza è irriducibile: penso che sia altamente probabile che non lo sia. Io dico solo che lo studio del comportamento dei corpi viventi, al presente stadio della nostra conoscenza, è distinto dalla fisica. Lo studio dei gas era originariamente totalmente distinto da quello dei corpi rigidi, e non sarebbe mai progredito fino al suo stato presente se non fosse stato indagato indipendentemente. Ai giorni nostri sia il gas che il corpo rigido sono costruiti sulla base di un genere di materia più universale e primitiva. In questo campo, metodologicamente, le leggi dei corpi viventi sono da studiarsi, in primo luogo, senza indebita fretta di subordinarle alle leggi della fisica. Dovevano essere scoperte la legge di Boyle e il resto prima che la teoria cinetica dei gas divenisse possibile. Ma in psicologia siamo ancora allo stadio della legge di Boyle. Nel frattempo non dobbiamo essere spaventati dall'universale e rigida esattezza della fisica. Questa è ancora una mera ipotesi da testare empiricamente senza preconcetti. Può essere vera o può non esserlo. Finora ciò è tutto ciò che possiamo dire.
Passando dalla nostra digressione all'argomento principale, cioè le critiche alla “coscienza”, osserviamo che Freud e i suoi seguaci, sebbene abbiano dimostrato al di là di ogni possibile disputa l'immensa importanza dei desideri “inconsci” nel determinare le nostre azioni e credenze, non ci ha detto cosa effettivamente sia un desiderio “inconscio” e hanno così ricoperto la loro dottrina con un aria di misteriosa e mitologica che forma una gran parte della sua attrattiva popolare. Essi si esprimono sempre come se sia più normale per un desiderio di essere conscio, e come se si dovesse indicare una causa positiva per il suo essere inconscio. Così “l'inconscio” diventa una sorta di prigioniero sotterraneo che irrompe a lunghi intervalli nella nostra rispettabilità diurna con cupi gemiti, maledizioni e strane brame ataviche. Il lettore comune, quasi inevitabilmente, pensa a questo prigioniero come a un'altra coscienza, impedita da ciò che Freud chiama il “censore” a far sentire la sua voce pubblicamente, ad eccezione di rare e pessime occasioni quando grida così forte che ognuno lo ode e scoppia uno scandalo. A molti di noi piace l'idea che noi potremmo essere disperatamente malvagi se solo ci lasciassimo andare. Per questa ragione l'”inconscio” di Freud è stata la consolazione di molte persone tranquille e dabbene.
Non penso che la verità sia proprio così pittoresca. Io credo che il desiderio “inconscio” è solamente una legge causale del comportamento [12], cioé, che restiamo iperattivi fino a che non si realizzi un certo stato di cose, allorché raggiungiamo un equilibrio temporaneo. Se conosciamo già questo stato di cose il nostro desiderio è conscio; altrimenti inconscio. Il desiderio inconscio non è qualcosa di effettivamente esistente ma solo una tendenza a un certo comportamento; ha essattamente lo stesso status della forza in dinamica. Il desiderio inconscio non è in nessun modo misterioso; è la forma naturale e primitiva del desiderio, da cui si sviluppa l'altro [il desiderio conscio] attraverso il nostro abito di osservare e teorizzare (spesso in maniera sbagliata). Non è necessario supporre, come Freud sembra fare, che ogni desiderio inconscio sia stato prima consapevole, dobbiamo supporre che fosse poi nella sua terminologia “represso” perché noi lo disapproviamo. Al contrario dobbiamo supporre che, sebbene la freudiana “repressione” occorre indubitabilmente ed è importante, non è l'usuale ragione per l'inconsapevolezza dei nostri desideri. La ragione usuale è solo che i desideri sono tutti, inizialmente, inconsci; e divengono conosciuti solo quando sono attivamente notati. Usualmente, per pigrizia, le persone non si accorgono ma accettano la teoria della natura umana che trovano diffusa, e attribuiscono a se stessi qualunque desiderio la teoria preveda che essi abbiano. Eravamo pieni di desideri virtuosi ma dopo Freud i nostri desideri sono diventati, come nelle parole del profeta Geremia, “disonesti sopra ogni cosa e terribilmente malvagi”. Entrambi questi punti di vista, in molti di quelli che li hanno sostenuti, sono il prodotto di una teoria piuttosto che dell'osservazione, poiché l'osservazione richiede sforzo, mentre ripetere delle frasi no.
L'interpretazione dei desideri che ho difeso è stata esposta brevemente dal professor John B. Watson in un articolo intitolato "The Psychology of Wish Fulfilment," che è apparso in "The Scientific Monthly" a November del 1916. Due citazioni serviranno per mostrare il suo punto di vista:
“I freudiani (egli dice) hanno fatto del censore quasi una “entità metafisica”. Essi suppongono che quando i desideri sono repressi essi sono repressi nell'”inconscio” e che questo misterioso censore si trova sulla botola che divide il conscio dall'inconscio. Molti di noi non credono in un mondo dell'inconscio (una minoranza di noi nutre anche seri dubbi sull'utilità del termine coscienza) poiché proviamo a spiegare la censura mantenendosi in linea con l'ordinaria biologia. Noi crediamo che un gruppo di abitudini possa “avere la meglio” su un altro gruppo di abitudini – o istinti. In questo caso il nostro ordinario sistema di abitudini – quello che diciamo esprimere il nostro “io reale” - inibisce o sopprime (rendendo inattive o parzialmente inattive) quelle abitudini e tendenze istintive che appartengono ampiamente al passato” (p.483)
Ancora, dopo aver parlato della frustrazione di qualche impulso che è coinvolta nell'acquisizione delle abitudini di un adulto civilizzato, egli prosegue:
“é tra questi impulsi frustrati che pongo le basi biologiche del desiderio insoddisfatto. Tali “desideri” non abbisognano di essere “consci” e non abbisognano di essere sospinti nel reame freudiano dell'inconscio. Può essere dedotto da ciò che non vi è nessuna paricolare ragione per applicare il termine “desiderio” a tali tendenze” (p. 485).
Uno dei meriti dell'analisi generale della mente che esporremo nelle prossime lezioni è che essa dirada l'atmosfera di mistero dai fenomeni portati alla luce dagli psicoanalisti. Il mistero è delizioso ma a-scientifico poiché dipende dall'ignoranza. L'uomo si è evoluto dagli animali, e non c'è una seria differenza fra lui e l'ameba. Qualcosa di analogo alla conoscenza e al desiderio, in relazione agli effetti sul comportamento, esiste tra gli animali, anche quando è difficile credere che vi sia “coscienza”. È perciò naturale supporre che qualunque sia la definizione corretta di “coscienza”, la “coscienza” non è l'essenza della vita della mente. Pertanto nelle successive lezioni il termine scomparirà finché non ci occuperemo delle parole, quando riemergerà solamente come ovvia e non importante risultato di abitudini linguistiche.
NOTE ALLA PRIMA LEZIONE
[1] "Our Knowledge of the External World" (Allen & Unwin), capitoli III e IV. Vedi anche "Mysticism and Logic," saggi VII e VIII.
[2] "Psychologie vom empirischen Standpunkte," vol. i, 1874. (Il secondo volume non è mai stato pubblicato.)
[3] Vedi, e.g. Il suo articolo : "Ueber Gegenstande hoherer Ordnung und deren Verhaltniss zur inneren Wahrnehmung," "Zeitschrift fur Psychologie and Physiologie der Sinnesorgane," vol. xxi, pp. 182-272 (1899), specialmente pp. 185-8.
[4] Questo è esattamente il caso di "Analysis of Sensations," di Mach, un libro di importanza fondamentale a questo riguardo. (Traduzione della quinta edizione tedesca, Open Court Co., 1914. Prima edizione tedesca, 1886.)
[5] "Journal of Philosophy, Psychology and Scientific Methods," vol. i, 1904. Ristampato in "Essays in Radical Empiricism" (Longmans, Green & Co., 1912), pp. 1-38, a cui si fa riferimento in ciò che segue.
[6] "The Concept of Consciousness" (Geo. Allen & Co., 1914), p. 52.
[7] Vedi in particolare il suo "Behavior: an Introduction to Comparative Psychology," New York, 1914.
[8] Una interessante discussione del problema se le azioni istintive, compiute per la prima volta, implicano qualche previsione, sebbene vaga, può essere trovata nel libro di Lloyd Morgan "Instinct and Experience" (Methuen, 1912), cap. ii.
[9] C'è un vasto campo di fenomeni “inconsci” che non dipendono dalle teorie psico-analitiche. Fatti come lo scrivere automatico hanno portato il Dr. Morton Prince a dire: "Nella questione del subcoscio, secondo me, è stato dato troppo peso al fatto che i nostri processi consci siano consapevoli o meno. Come dato di fatto troviamo fenomeni identici, cioé identici sotto ogni aspetto tranne quello della consapevolezza nei quali talvolta siamo consapevoli di tali fenomeni consci e talvolta no” (p. 87 di "Subconscious Phenomena," autori vari, Rebman). Il Dr. Morton Price sostiene che vi può essere “coscienza” senza “consapevolezza”. Ma questa è un punto di vista difficile e che rende urgente una definizione di “coscienza”. Per quanto mi riguarda non riesco a vedere come separare la coscienza dalla consapevolezza.
[10] Cambridge, 1912; seconda edizione, 1914. I seguenti sono rimandi alla seconda edizione.
[11] Comunque sembrerebbe che il Dr. Hart accetti questa teoria come precetto metodologico. Si veda il suo contributo a "Subconscious Phenomena" (citato sopra), particolarmente pp. 121-2.
[12] Cf. Hart, "The Psychology of Insanity," p. 19.
LEZIONE II. ISTINTO E ABITUDINE
Nel tentativo di comprendere di quali elementi siano costituiti i fenomeni mentali, è della più grande importanza ricordare che dal protozoo all'uomo non vi è in nessun modo un salto molto ampio sia nella struttura che nel comportamento. Da questo fatto si può trarre l'inferenza altamente probabile che non vi sia per nulla neanche un salto mentale veramente ampio. È naturalmente possibile che vi possano essere, ad un certo stadio dell'evoluzione, elementi che sono del tutto nuovi dal punto di vista dell'analisi, sebbene nella loro forma originaria abbiano poca influenza sul comportamento e non presentino fattori correlari alla struttura. Ma l'ipotesi della continuità dello sviluppo mentale è chiaramente preferibile se nessun fatto psicologico la rende impossibile. Troveremo, se non sono in errore, che non ci sono fatti che refutano l'ipotesi della continuità mentale e che, d'altro canto, questa ipotesi fornisce un utile test delle teorie proposte circa la natura della mente.
L'ipotesi della continuità mentale attraverso l'evoluzione organica può essere usata in due differenti modi. Da un canto, può essere sostenuto che abbiamo maggior conoscenza delle nostre menti che di quelle degli animali e che dovremmo usare questa conoscenza per inferire l'esistenza di qualcosa di simile ai nostri processi mentali negli animali e anche nelle piante. Può essere sostenuto che noi abbiamo maggiore conoscenza delle nostre menti che di quelle degli animali e che dovremmo usare questa conoscenza per inferire l'esistenza di qualcosa di simile ai nostri processi mentali negli animali e anche nelle piante. D'altro canto potrebbe essere sostenuto che gli animali e le piante presentano fenomeni più semplici e più facili da analizzare rispetto a quelli delle menti umane; su questa base si raccomanda di non rigettare con leggerezza nel caso dell'uomo quelle spiegazioni che sono adeguate nel caso degli animali. Gli effetti pratici di questi due punti di vista sono diametralmente opposti: il primo ci porta ad elevare l'intelligenza animale a ciò che crediamo di conoscere della nostra propria intelligenza, mentre il secondo ci porta ad abbassare la nostra intelligenza fino a qualcosa di non distante da ciò che possiamo osservare negli animali. È perciò importante considerare le relative giustificazioni dei due modi di applicare il principio di continuità.
È chiaro che la questione è incentrata intorno ad un altro problema, e cioé: cosa possiamo conoscere meglio, la psicologia degli animali o quella degli esseri umani? Se possiamo conoscere di più circa gli animali useremo questa conoscenza come base per inferenze circa gli esseri umani; se possiamo conoscere di più circa gli esseri umani adotteremo la procedura opposta. E la domanda se possiamo conoscere più attorno alla psicologia degli esseri umani o attorno a quella degli animali è incentrata su un'altra ancora, cioé: il metodo più sicuro in psicologia è l'introspezione o l'osservazione esterna? Questo è un problema che propongo di discutere ampiamente nella lezione VI; perciò ora mi accontenterò delle conclusioni a cui si arriverà più avanti.
Noi conosciamo molte cose concernenti noi stessi che non possiamo sapere in maniera altrettanto diretta degli animali o anche di altre persone. Sappiamo quando abbiamo mal di denti, a che cosa stiamo pensando, che sogni abbiamo quando siamo addormentati, e una moltitudine di altri fatti che noi conosciamo a proposito degli altri solo quando essi ce ne parlano, o altrimenti quando sono inferibili dal loro comportamento. Perciò per quanto riguarda la conoscenza di fatti isolati, il vantaggio è dal lato della conoscenza di sé [self-knowledge] contro l'osservazione esterna.
Ma quando perveniamo all'analisi e alla comprensione scientifica dei fatti, i vantaggi del punto di vista a favore della conoscenza di sé divengono meno chiari. Per esempio sappiamo di avere desideri e credenze ma non sappiamo cosa costituisca un desiderio o una credenza. I fenomeni sono così familiari che è difficile rendersi conto quanto poco conosciamo in realtà a proposito di essi. Vediamo negli animali, e in misura minore nelle piante, un comportamento più o meno simile a quello che in noi è causato dai desideri e dalle credenze, e troviamo che scendendo nella scala dell'evoluzione il comportamento diviene più semplice, più facilmente riducibile a regole, più analizzabile scientificamente e predicibile. E poiché non siamo fuorviati dalla familiarità troviamo più facile essere cauti nell'interpretare il comportamento quando siamo in presenza di fenomeni distanti da quelli delle nostre menti. Perdipiù l'introspezione, come la psicoanalisi ha dimostrato, è straordinariamente fallibile anche nei casi in cui sentiamo un alto grado di certezza. Il risultato netto sembra essere che sebbene la conoscenza di sé abbia un contributo definito e importante da dare alla psicologia essa è eccessivamente fuorviante a meno che sia costantemente testata e controllata dal test dell'osservazione esterna, e dalle teorie che tale osservazione suggerisce quando applicate al comportamento animale. Su tutto ciò, perciò, c'è probabilmente ancora di più da apprendere circa la psicologia umana partendo dagli animali che della psicologia animale partendo dagli esseri umani; ma questa consclusione è una questione di grado e non può essere portata oltre un certo punto.
Sono solo i fenomeni corporei che possono essere direttamente osservati negli animali o anche, parlando in senso stretto, negli altri esseri umani. Possiamo osservare cose come i loro movimenti, i loro processi fisiologici e i suoni che emettono. Cose come i desideri e le credenze, che sembrano ovvie all'introspezione, non sono direttamente visibili all'osservazione esterna. Pertanto se iniziamo il nostro studio della psicologia tramite l'osservazione esterna non dobbiamo cominciare assumendo cose come desideri e credenze, ma solo cose che l'osservazione esterna possono rivelare e che sarà caratteristico dei movimenti e dei processi fisiologici degli animali. Qualche animale, per esempio, fugge sempre la luce e si nasconde in posti oscuri. Se raccogliete una pietra coperta di muschio appena conficcata nel terreno vedrete un certo numero di animaletti scappare dall'insolita luce del giorno e cercare nuovamente il buio di cui sono stati privati. Questi animali sono sensibili alla luce, nel senso che i loro movimenti sono influenzati da essa; ma sarebbe azzardato inferire che essi hanno sensazioni per ogni verso analoghe alle nostre sensazioni visive. Tali inferenze, che vanno oltre i fatti osservabili, sono da evitare con la più grande cura.
Si è soliti dividere i movimenti umani in tre classi: volontari, riflessi e meccanici. Possiamo illustrare la distinzione tramite una citazione di William James ("Psychology," i, 12):
“Se entrando nella stazione sento il controllore gridare “in carrozza”, allora il mio cuore prima si ferma, quindi palpita, e le mie gambe rispondono alle onde sonore che mi colpiscono il timpano affrettando i movimenti. Se mentre corro inciampo la sensazione di cadere provoca un movimento delle mani nella direzione della caduta, il cui effetto è proteggere il corpo da uno shock improvviso. Se mi entra un moscerino nell'occhio, le palpebre si chiudono e un copioso flusso di lacrime tende a eliminarlo lavando l'occhio.
Queste tre risposte ad uno stimolo sensoriale, comunque, differiscono sotto molti punti di vista. La chiusura dell'occhio e la lacrimazione sono completamente involontari e così pure il disturbo al cuore. Tali risposte involontarie le conosciamo come atti “riflessi”. Il movimento delle braccia per attutire la caduta può anche essere chiamato riflesso poiché accade troppo rapidamente per essere considerato intenzionale. Se esso sia istintivo o risulti dall'educazione del bambino, durante l'infanzia, a camminare, non sappiamo; è comunque meno automatico degli atti precedenti perché un uomo, con uno sforzo cosciente, può imparare a compierlo con maggiore abilità o addirittura a sopprimerlo del tutto. Le azioni di questo genere, nelle quali istinto e volizione entrano in uguali parti, sono state chiamate “semi-riflesse”. D'altro canto l'atto di correre verso il treno non ha elementi istintivi. È puramente il risultato dell'educazione ed è preceduto dalla consapevolezza dello scopo che si vuole ottenere e da un distinto ordine della volontà. È un “atto volontario”. Così gli atti riflessi e quelli volontari degli animali sfumano gradualmente gli uni negli altri, essendo collegati da atti che spesso avvengono automaticamente ma possono anche essere modificati dall'intelligenza conscia.
Un osservatore esterno, incapace di percepire la coscienza che li accompagna, potrebbe non riuscire a discriminare tra gli atti automatici e quelli determinati dalla volizione. Ma se per raggiungere un dato fine si sceglie come mezzo opportuno il criterio dell'esistenza della mente, allora tutti gli atti sembreranno ispirati dall'intelligenza poiché l'appropriatezza li caratterizza tutti ugualmente.”
C'è un movimento tra quelli che James menziona, che non è successivamente classificato, ossia l'inciampare. Questo è il genere di movimento che può essere chiamato “meccanico”; evidentemente è di un genere differente rispetto sia ai movimenti riflessi che ai movimenti volontari, e più simile ai movimenti della materia priva di vita. Possiamo definire un movimento di un corpo animato come “meccanico” quando esso avviene come se fosse coinvolta soltanto materia inanimata. Ad esempio se si cade da una scogliera ci si muove sotto l'influsso della gravità e il centro di gravità descrive una parabola tanto perfetta quanto quella che descriverebbe se si fosse già morti. I movimenti meccanici non hanno la caratteristica dell'appropriatezza se non accidentalmente, come quando un ubriaco cade in una botte d'acqua e ne esce sobrio. Ma i movimenti riflessi e volontari non sempre sono appropriati , a meno che non ci si riferisca a un senso molto recondito. La falena che sbatte contro la lampada non agisce in maniera sensata; nello stesso modo un uomo che abbia così fretta di fare il suo biglietto da non riuscire a ricordare il nome della sua destinazione. L'appropriatezza è un'idea complicata e molto approssimativa, e per ora faremo bene a eliminarla dai nostri pensieri.
Come affermato da James, dal punto di vista dell'osservatore esterno, non vi è differenza tra i movimenti volontari e quelli riflessi. Il fisiologo può scoprire che entrambi dipendono dal sistema nervoso, e può scoprire che i movimenti che chiamiamo volontari dipendono da centri più elevati del cervello rispetto a quelli da cui dipendono i movimenti riflessi. Ma egli non può scoprine nulla circa la presenza o l'assenza di “volontà” o “coscienza”, poiché queste cose possono al più essere viste dall'interno. Per ora vogliamo collocarci con risolutezza nella posizione di osservatori esterni; ignoreremo pertanto la distinzione fra movimenti volontari e riflessi. I due movimenti insieme saranno chiamati “vitali”. Possiamo distinguere i movimenti “vitali” da quelli meccanici per il fatto che i primi dipendono causalmente dalle speciali proprietà del sistema nervoso, mentre i movimenti meccanici dipendono solo dalle proprietà che i corpi degli animali condividono con la materia in generale.
C'è bisogno di attenzione per rendere precisa la distinzione fra movimenti meccanici e vitali. È molto verosimile che se conoscessimo di più circa i corpi degli animali potremmo dedurre tutti i loro movimenti dalle leggi della chimica e della fisica. È abbastanza facile vedere come la chimica si riduce alla fisica, i.e., come si rende conto delle differenze fra gli elementi chimici tramite la differenza di struttura fisica, essendo i costituenti della struttura gli elettroni che sono esattamente simili in ogni tipo di materia. Sappiamo solo in parte come ridurre la fisiologia alla chimica, ma sappiamo abbastanza per ritenere verosimile che la riduzione sia possibile. Se diamo tale riduzione per effettuata, cosa diventerebbe la differenza tra movimenti vitali e meccanici?
Qualche analogia renderà la differenza chiara. Un colpo a una massa di dinamite produce effetti completamente differenti da un colpo uguale dato a una massa di ferro: nel primo caso vi è una vasta esplosione, mentre nell'altro caso vi sono effetti difficilmente notabili. In maniera simile si trova talvolta in montagna un masso posizionato così delicatamente che un tocco lo può far muovere fino a valle, mentre le rocce tutt'attorno sono così ferme che solo una forza considerevole potrebbe muoverle. Ciò che è analogo in questi due casi è l'esistenza di una gran quantità di energia in equilibrio instabile pronta a scoppiare in moto violento con l'aggiunta di un disturbo minimo. Similmente spedire una cartolina con le parole “Tutto è scoperto; dileguati!” comporta una spesa di energia minima ma l'effetto nel generare energia cinetica è stupefacente. Un corpo umano, come una massa di dinamite, contiere energia in equilibrio instabile, pronta ad essere diretta in questa o quest'altra direzione da un turbamento che è fisicamente molto piccola, come una parola pronunciata. In tutti questi casi la riduzione del comportamento alle leggi fisiche può essere solo effettuato entrando nei minimi particolari; fino a quando ci limitiamo all'osservazione di masse relativamente ampie il modo in cui l'equilibrio sarà turbato non può essere determinato. I fisici distinguono fra equazioni macroscopiche e miscroscopiche: le prime determinano i movimenti visibili dei corpi di taglia ordinaria, le seconde i fatti minuscoli nelle parti più piccole. Sono solo le equazioni microscopiche che si suppone siano le stesse per tutti i tipi di materia. Le equazioni macroscopiche risultano dal fare la media, e possono essere differenti nelle diverse situazioni. Così, nel nostro caso, le leggi dei fenomeni macroscopici sono differenti per i movimenti meccanici e per quelli vitali, sebbene le leggi dei fenomeni microscopici possano essere le stesse.
Possiamo dire, parlando approssimativamente, che uno stimolo applicato al sistema nervoso, come una scintilla alla dinamite, è in grado di avere la meglio sull'energia immagazzinata in equilibrio instabile, e così di produrre movimenti sproporzionati rispetto alla causa prossima. I movimenti prodotti in questo modo sono movimenti vitali, mentre i movimenti meccanici sono quelli in cui l'energia immagazzinata di un corpo vivente non è coinvolta. In maniera simile la dinamite può essere fatta esplodere, mostrando così le sue proprietà caratteristiche o può, con le dovute precauzioni, essere trasportata come qualsiasi altro minerale. L'esplosione è analoga ai movimenti vitali, il trasporto è simile ai movimenti meccanici.
I movimenti meccanici sono di nessun interesse per lo psicologo ed è solo necessario definirli al fine di essere in grado di escluderli. Quando uno psicologo studia il comportamento, sono solo i movimenti vitali che lo riguardano. Pertanto ignoreremo i movimenti meccanici e studieremo solo le proprietà dei rimanenti.
Il prossimo punto è la distinzione tra movimenti che sono istintivi e movimenti che sono acquisiti tramite l'esperienza. La distinzione è fino a un certo punto una questione di grado. Il professor Lloyd Morgan fornisce la seguente definizione di “comportamento istintivo”:
“Quello che, quando accade la prima volta, è indipendente dall'esperienza precedente; che tende al benessere dell'individuo e alla preservazione della razza; che è manifestato in maniera simile da tutti i membri dello stesso più o meno ristretto gruppo di animali; e che può essere soggetto a modifiche sotto la guida dell'esperienza” [1].
Questa definizione è enunciata per gli scopi della biologia ed è per qualche aspetto inadatta ai bisogni della psicologia. Sebbene sia forse inevitabile, l'allusione a “lo stesso più o meno ristretto gruppo di animali” rende impossibile giudicare cosa sia istintivo nel comportamento di un individuo isolato. Per di più “il benessere dell'individuo e la preservazione della razza” è solo una caratteristica usuale, non universale, del tipo di movimenti che dal nostro punto di vista vanno chiamati istintivi; esempi di istinti nocivi saranno dati fra poco. Il punto essenziale della definizione, dal nostro punto di vista, è che un movimento istintivo è indipendente dall'esperienza precedente.
Possiamo dire che un movimento “istintivo” è un movimento vitale messo in atto da un animale la prima volta che si trova in una situazione nuova; o, più correttamente, un movimento che l'animale compirebbe se la situazione fosse nuova [2]. Gli istinti di un animale sono differenti nei diversi periodi di crescita e questo fatto può provocare mutamenti di comportamento che non sono dovuti all'apprendimento. La maturazione e la fluttuazione stagionale dell'istinto sessuale offre un buon esempio. Quando l'istinto sessuale matura per la prima volta il comportamento dell'animale in presenza di un compagno differisce dal suo precedente comportamento in circostanze simili, ma non è appreso, poiché sarebbe lo stesso se l'animale non fosse mai stato prima in presenza di un compagno.
D'altro canto un movimento è “appreso” o rappresenta un'”abitudine” se è dovuto all'esperienza precedentemente fatta in circostanze simili, e non sarebbe ciò che è se l'animale non avesse avuto tale esperienza.
Nella pratica ci sono varie complicazioni che offuscano la nitidezza di questa distinzione. Tanto per iniziare molti istinti maturano gradualmente e mentre sono immaturi un animale può agire per tentativi in una maniera difficilmente distinguibile dall'apprendimento. James ("Psychology," ii, 407) sostiene che i bambini camminano per istinto e che la goffagine dei loro primi tentativi è dovuta solo al fatto che l'istinto non si è ancora maturato. Egli spera che “qualche vedovo fornito di spirito scientifico, lasciato solo con la sua prole al momento critico, possa ben presto verificare questa ipotesi sul soggetto vivente”. Comunque sia, cita delle prove che mostrano che “gli uccelli non imparano a volare”, ma volano per istinto quando raggiungono l'età appropriata (ib., p. 406). In secondo luogo l'istinto spesso fornisce solo un'indicazione approssimativa di ciò che bisogna fare, nel qual caso è necessario l'apprendimento al fine di fornire certezza e precisione all'azione. In terzo luogo, anche nei casi più chiari di abitudine acquisita, come il parlare, è richiesto qualche istino per mettere in moto il processo d'apprendimento. Nel caso del parlare, il principale istinto coinvolto si suppone comunemente che sia quello di imitazione, ma ciò può essere messo in dubbio. (Si veda Thorndike, "Animal Intelligence," p. 253 ss.).
Nonostante queste qualifiche la distinzione di massima fra istinto e abitudine è innegabile. Per prendere i casi estremi, ogni animale alla nascita può assumere il cibo per istinto, prima che abbia avuto l'opportunità di imparare a farlo; d'altro canto nessuno può guidare una bicicletta per istinto sebbene, dopo aver imparato a farlo, i movimenti necessari divengano tanto automatici come se fossero istintivi.
Il processo di apprendimento, che consiste nell'acquisizione di abitudini, è stato molto studiato in vari animali. [3] Per esempio: si colloca un animale affamato, diciamo un gatto, in una gabbia che abbia una porta che si possa aprire sollevando una leva; fuori dalla gabbia si pone del cibo. Il gatto dapprima correrà per la gabbia, compiendo frenetici sforzi per trovare una via d'uscita. Ad un certo punto, per caso, solleva la leva e piomba sul cibo. Il giorno successivo si ripete l'esperimento e si trova che il gatto esce molto più rapidamente della prima volta, sebbene compia ancora qualche movimento casuale. Il terzo giorno esce ancora più rapidamente, va diritto alla leva e la solleva immediatamente. Oppure si costruisce un modello del labirinto di Hampton Court e si pone un topo, eccitato dall'odore del cibo che proviene dall'esterno, proprio nel mezzo. Il topo inizia esplorando i passaggi, ed è costantemente fermato da vicoli ciechi ma alla fine, grazie al persistere dei tentativi, raggiunge l'uscita. Si ripete l'esperimento il giorno dopo; si misura il tempo impiegato dal topo a raggiungere il cibo; si scopre che il tempo diminuisce rapidamente e che dopo un po' il topo smette di prendere vie sbagliate. È essenzialmente tramite simili processi che impariamo a parlare, a scrivere, la matematica o a governare un impero.
Il professor Watson (“Behavior”, pp. 262-3) propone una ingegnosa teoria circa il modo in cui, a partire da movimenti casuali, sorge l'abitudine. Penso che vi sia una ragione per cui la sua teoria non può essere considerata sufficiente da sola, ma non sembra improbabile che sia parzialmente corretta. Per amore di semplicità si supponga che vi siano solo dieci movimenti casuali che l'animale possa compiere – cioé, dieci vie che possa percorrere – e che solo una di queste conduca al cibo, o a qualsiasi altra cosa rappresenti la meta nel caso in questione. Allora il movimento che ha successo ha luogo sempre durante i tentativi dell'animale mentre ciascuno degli altri si rivela in media solo in metà dei tentativi. Così la tendenza a ripetere una prestazione precedente (che è facilmente spiegabile senza l'inervento della “coscienza”) tende ad enfatizzare grandemente il movimento giusto rispetto agli altri, e nel tempo causa il fatto che il movimento giusto è il solo a presentarsi. L'obiezione a questo punto di vista, se preso come unica spiegazione, è che un miglioramento deve avvenire dopo il secondo tentativo, mentre l'esperimento mostra che già al secondo tentativo l'animale fa meglio della prima volta. Qualcosa di ulteriore è pertanto richiesto per rendere conto della genesi dell'abitudine a partire da movimenti casuali; ma non vedo nessuna ragione per supporre che ciò che è ulteriormente coinvolto comporti la “coscienza”.
Mr. Thorndike (op. cit., p. 244) ha formulato due “leggi sperimentali del comportamento acquisito o apprendimento” nei termini seguenti:
“La legge dell'effetto è questa: di più risposte fornite alla stessa situazione quelle che sono accompagnate o immediatamente seguite dalla soddisfazione dell'animale, a parità di circostanze, saranno più intensamente connesse con la situazione in modo che, quando essa ricorre, è più probabile che esse si verifichino; quelle risposte che sono accompagnate o immediatamente seguite dal disagio dell'animale, a parità di circostanze, avranno le loro connessioni con quella situazione indebolite, cosicché, quando essa ricorre, è meno probabile che esse si verifichino. Più grande è la soddisfazione o il disagio, più grande la forza o la debolezza del legame.
La legge dell'esercizio è questa: ogni risposta a una situazione data, a parità di circostanze, sarà connessa con la situazione in proporzione al numero di volte che è stata connessa con la situazione e alla forza e alla durata medie delle connessioni.”
Con la spiegazione che sarà fornita del significato di “soddisfazione” e “disagio” sembra che ci sia ogni ragione di accettare queste due leggi.
Per quanto riguarda l'istinto e l'abitudine ciò che è vero degli animali è ugualmente vero degli uomini. Ma più si sale nella scala dell'evoluzione (generalmente parlando) più si accresce il potere di apprendere e minori sono le occasioni dove si esibisce il puro istinto in età adulta. Ciò si applica fortemente all'uomo, così tanto che qualcuno ha pensato che l'istinto sia meno importante nella vita dell'uomo che in quella degli animali. Questo comunque sarebbe un errore. L'apprendimento è possibile solo quando l'istinto fornisce la forza motoria. Gli animali in gabbia che imparano gradualmente ad uscirne, inizialmente mostrano movimenti casuali che sono puramente istintivi. Ma se non fosse per questi movimenti casuali essi non acquisirebbero mai l'esperienza che successivamente li mette in grado di produrre il movimento giusto. (Ciò è parzialmente messo in dubbio da Hobhouse [4]- a torto, io penso.) In maniera simile il bambino che impara a parlare produce ogni sorta di suoni, fino a che un giorno il suono giusto capita per caso. È chiaro che la produzione originaria di suoni casuali, senza cui non si potrebbe imparare a parlare, è istintiva. Penso che possiamo dire lo stesso di tutti le abitudini e le attitudini che acquisiamo; in tutte è largamente presente qualche attività istintiva, che produce dapprima movimenti piuttosto insufficienti, ma che fornivano la forza motrice mentre metodi sempre più efficaci erano acquisiti. Un gatto affamato sente l'odore del pesce, e va alla dispensa. Questo è un metodo efficace quando vi è del pesce nella dispensa ed è spesso praticato con successo dai bambini. Ma più tardi nella vita ci si accorge che il solo andare alla dispensa non provoca il fatto che il pesce sia lì; dopo una serie di movimenti casuali si scopre che questo risultato è causato dall'andare alla City al mattino, e tornare indietro la sera. Nessuno avrebbe potuto indovinare a priori che questo movimento di un uomo di mezza età potesse causare il fatto che il pesce esca dal mare per finire nella sua dispensa, ma l'esperienza mostra che è così, e l'uomo di mezza età continua ad andare alla City, proprio come il gatto nella gabbia continua a sollevare la leva dopo averla trovata la prima volta. Effettivamente l'apprendimento umano è reso più facile, sebbene psicologicamente più complesso, dal linguaggio; ma in realtà il linguaggio non altera il carattere essenziale dell'apprendere o la parte giocata dall'istinto nel promuovere l'apprendimento. Ad ogni modo il linguaggio è un soggetto su cui non desidero parlare prima di una prossima lezione.
La concezione popolare dell'istinto erra immaginandolo infallibile e preternaturalmente saggio, così come incapace di modifica. Questa è una completa illusione. Di regola l'istinto è molto approssimativo e in grado di ottenere il suo risultato date le circostanze ordinarie, ma facilmente ingannato da qualcosa di non usuale. I pulcini seguono la loro madre per istinto ma quando sono ancora troppo giovani seguono con uguale prontezza ogni oggetto mobile vagamente somigliante alla madre, o anche un essere umano (James, "Psychology," ii, 396). Bergson, citando Fabre, ha dato molta importanza alla supposta straordinaria accuratezza della vespa solitaria Ammophila, che depone le sue uova nel bruco. Su questo argomento citerò un passo dal libro di Drever, "Instinct in Man," p. 92:
“Secondo le osservazioni di Fabre che Bergson accetta, l'Ammophila punge la sua preda esattamente e infallibilmente in ognuno dei centri nervosi. Il risultato è che il bruco è paralizzato ma non immediatamente ucciso, essendoci con ciò il vantaggio che la larva non può essere danneggiata da qualche movimento del bruco, su cui le uova sono deposte, ed essa, quando arriva il momento, può avere a disposizione carne fresca.
“Ora, il Dottor Peckham e signora hanno mostrato che la puntura della vespa non è infallibile, come sostenuto da Fabre, che il numero di punture non è costante, che talvolta il bruco non è paralizzato, e talvolta viene ucciso immediatamente, e che le differenti circostanze non fanno apparentemente differenza per la larva, che non è danneggiata dagli impercettibili movimenti del bruco e neanche dal consumare cibo decomposto invece che bruco fresco”.
Ciò illustra come l'amore del meraviglioso possa fuorviare anche un osservatore così attento come Fabre e un filosofo così eminente come Bergson.
Nel medesimo capitolo del libro del dottor Drever vi sono interessanti esempi degli errori compiuti dall'istinto. Ne citerò uno a mo' d'esempio:
“La larva del coleottero Lomechusa mangia le giovani formiche nella cui tana è allevata. Cionondimeno le formiche curano i piccoli della Lomechusa con la stessa attenzione che adoperano con i loro propri piccoli. E non accade solo ciò ma anche che esse apparentemente scoprono che il nutrimento usualmente adatto alle larve di formica si rivela fatale all'ospite e conseguentemente cambiano l'intero sistema di alevamento” (loc. cit., p. 106).
Semon ("Die Mneme," pp. 207-9) ci dà un buon esempio di istinto che crescendo diventa più saggio grazie all'esperienza. Egli descrive come i cacciatori attraggono i cervi imitando i suoni degli altri membri della loro specie, maschi o femmine, ma rileva che più anziano un cervo diventa e più è difficile ingannarlo, sicché più accurata dive essere l'imitazione. La letteratura sull'istinto è vasta e gli esempi possono essere moltiplicati indefinitamente. Riguardo all'istinto i principali punti, che devono essere enfatizzati contro la concezione popolare di esso, sono:
(1) Che l'istinto non richiede previsione del fine biologico al quale serve;
(2) Che l'istinto è solo adatto a raggiungere il suo fine nelle circostanze usuali per l'animale in questione e non ha più precisione, come regola, di quanta sia necessaria per il successo.
(3) Che spesso i processi iniziati dall'istinto possono essere eseguiti meglio dopo l'esperienza;
(4) Che l'istinto fornisce l'impulso ai tentativi che sono richiesti per il processo di apprendimento;
(5) Che gli istinti nel loro stadio iniziale sono facilmente modificabili e capaci di essere riferiti a vati tipi di oggetti.
Tutte le caratteristiche dell'istinto di cui sopra possono essere stabilite con la sola osservazione esterna, ad eccezione del fatto che l'istinto non richiede previsione. Ciò, sebbene non lo si possa strettamente provare tramite l'osservazione, è irresistibilmente suggerito dai più vari fenomeni. Chi può credere, per esempio, che il bambino appena nato sia cosciente della necessità del cibo per la preservazione della vita? O che gli insetti, nel deporre le uova, sono coinvolti nella preservazione della loro specie? L'essenza dell'istinto, si potrebbe dire, è che fornisce un meccanismo per agire senza lungimiranza [foresight] in un modo che è solitamente biologicamente vantaggioso. È in parte per questa ragione che è così importante comprendere la posizione fondamentale dell'istinto nel causare sia il comportamento animale che quello umano.
NOTE ALLA LEZIONE II
[1] "Instinct and Experience" (Methuen, 1912) p. 5.
[2] Sebbene ciò possa essere solo deciso per raffronto con altri membri della specie, e così ci espone al bisogno di un raffronto che abbiamo sostenuto essere una obiezione alla definizione del professor Lloyd Morgan.
[3] Si può dire che lo studio scientifico del soggetto inizi con il libro di Thorndike "Animal Intelligence" (Macmillan, 1911).
[4] "Mind in Evolution" (Macmillan, 1915), pp. 236-237.
LEZIONE III. DESIDERIO E SENTIMENTO
Il desiderio è un soggetto sopra il quale, se non sono in errore, punti di vista corretti possono essere raggiunti con un ribaltamento quasi completo dell'ordinaria opinione irriflessiva. È naturale considerare il desiderio essenzialmente come una attitudine verso qualcosa che è immaginato, non attuale; questo qualcosa è chiamato il fine o l'oggetto del desiderio, ed è detto essere lo scopo di ogni azione risultante dal desiderio. Del contenuto del desiderio pensiamo che sia come il contenuto di una credenza, laddove l'atteggiamento [attitude] tenuto nei confronti del contenuto è differente. Secondo questa teoria quando diciamo: “spero che pioverà”, oppure “mi aspetto che piova” esprimiamo, nel primo caso un desiderio, e nel secondo una credenza, ma con un'identico contenuto e cioé l'immagine della pioggia. Sarebbe facile sostenere che proprio come la credenza è un tipo di sentimento in relazione al suo contenuto, così il desiderio è un altro tipo. Secondo questo modo di vedere, ciò che è primario nel desiderio è qualcosa di immaginato, con uno specifico sentimento relato ad esso, e cioé quello specifico sentire che chiamiamo “desiderare” quella certa cosa. La spiacevolezza associata al desiderio insoddisfatto, e le azioni il cui fine sia la soddisfazione del desiderio sono, da questo punto di vista, entrambi effetti del desiderio. Penso che sia giusto dire che questo sia un modo di vedere contro il quale il senso comune non dovrebbe ribellarsi; cionondimeno io lo ritengo radicalmente sbagliato. Non può essere refutato logicamente, ma vari fatti possono essere addotti in grado di renderlo progressivamente meno semplice e plausibile finché risulta più semplice abbandonarlo e guardare alla materia in una maniera totalmente differente.
Il primo insieme di fatti che possono essere addotti contro la visione del desiderio propria del senso comune è quello studiato dalla psicoanalisi. In tutti gli esseri umani, ma più marcatamente in quelli sofferenti di isteria e certe forme di alienazione, troviamo ciò che si chiama desiderio “inconscio” che è comunemente considerato come risultato di un'illusione. Molti psicoanalisti rivolgono poca attenzione all'analisi del desiderio, essendo interessati a scoprire tramite l'osservazione cosa la gente desideri, piuttosto che allo scoprire cosa realmente costituisca il desiderio. Io penso che la stranezza di ciò che riportano sarebbe grandemente diminuita se essi si esprimessere nel linguaggio della teoria comportamentista del desiderio, piuttosto che nel linguaggio delle credenze comuni. La descrizione generale del tipo di fenomeni che portano al nostro presente problema è la seguente: una persona afferma che i suoi desideri sono così e così e che sono questi desideri che ispirano le sue azioni; ma l'osservatore esterno percepisce che le sue azioni sono tali da realizzare fini completamente differenti da quelli ammessi, e che questi fini differenti sono ciò che ci si potrebbe aspettare che egli desideri. Generalmente sono meno virtuosi dei desideri dichiarati e perciò meno piacevole risulta ammettere che vi siano. Si suppone pertanto che essi esistano effettivamente come desideri di fini, ma in una parte subconscia della mente, che il paziente rifiuta di ammettere alla coscienza per paura di doversi pensare malato. Senza dubbio vi sono molti casi ai quali tale supposizione è applicabile senza artificialità ovvia. Ma più profondamente i freudiani penetrano nelle regioni sotterranee dell'istinto e più si allontanano da ciò che sembra un desiderio consio, e meno possibile diventa credere che sia solo una positiva illusione che ci nasconda che in realtà desideriamo cose che aborriamo nella nostra vita esplicita.
Nel caso in questione abbiamo un conflitto tra l'osservatore esterno e la coscienza del paziente. La tendenza complessiva della psicoanalisi è di fidarsi dell'osservatore esterno piuttosto che della testimonianza dell'introspezione. Penso che questa tendenza sia proprio nel giusto, ma che richieda una riconsiderazione di ciò che costituisce il desiderio, che lo mostri come una legge causale delle nostre azioni, non come qualcosa di effettivamente esistente nelle nostre menti.
Ma forniamo prima una chiara illustrazione della caratteristica essenziale dei fenomeni.
Troviamo che una persona afferma di desiderare un certo fine A e che sta agento in vista del suo perseguimento. Osserviamo comunque che le sue azioni sono tali che probabilmente lo porteranno a raggiungere un fine totalmente diverso B e che B è il tipo di fine che spesso sembra essere desiderato dagli animali e dai selvaggi, sebbene si supponga che le persone civili lo scartino. Talvolta troviamo anche un intero insieme di false credenze, di tipo tale da persuadere il paziente che le sue azioni sono realmente finalizzate ad A, quando in realtà esse sono finalizzate a B. Per esempio noi abbiamo l'impulso di infliggere dolore a coloro i quali odiamo; perciò crediamo che siano malvagli e che la punizione li migliorerà. Quaesta credenza ci mette in grado di agire sull'impulso di infliggere dolore, credendo che stiamo agendo sul desiderio di portare i peccatori alla redenzione. È per questa ragione che il diritto penale è stato in tutte le età più severo di quanto sarebbe stato se l'impulso a migliorare il criminale fosse ciò che in realtà lo ispira. Sembra semplice spiegare tale stato di cose come dovuto a “illusione” [self-deception] ma questa spiegazione è soltanto mitica. Molte persone, nel pensare alla punizione, non hanno più bisogno di nascondersi i propri impulsi vendicativi di quanto abbiano bisogno di nascondere il teorema esponenziale. I nostri impulsi non sono evidenti all'osservazione casuale, ma sono da scoprirsi tramite uno studio scientifico delle nostre azioni, nel corso del quale dobbiamo considerare noi stessi con tanta oggettività come se trattassimo dei movimenti dei pianeti o delle reazioni chimiche di un nuovo elemento.
Lo studio degli animali rinforza questa conclusione ed è in molti sensi la miglior preparazione per l'analisi del desiderio. Nell'osservazione degli animali non vi è il problema dell'influenza disturbante delle considerazioni etiche. Nell'interagire con gli esseri umani siamo perpetuamente distratti dal fatto che ci viene detto che la tale visione delle cose è tetra o cinica o pessimistica: secoli di vanità umana hanno costruito un tale vasto mito intorno alla nostra saggezza e virtù che ogni intrusione del mero desiderio scientifico di conoscere i fatti è rifiutata da coloro che si aggrappano a confortevoli illusioni. Ma nessuno bada al fatto che gli animali siano virtuosi o meno e nessuno è sottoposto all'illusione che essi siano razionali. Pertanto non ci aspettiamo da essi che siano “consci” e siamo preparati ad ammettere che i loro istinti producano azioni utili senza nessuna previsione dei fini che esse conseguono. Per tutte queste ragioni la maggiorparte delle cose che possono essere scoperte nell'analisi della mente sono scoperte attraverso lo studio degli animali piuttosto che tramite l'osservazione degli esseri umani.
Tutti noi pensiamo che osservando il comportameno degli animali possiamo scoprire più o meno ciò che essi desiderano. Se è così – e io credo che sia così – il desiderio deve essere in grado di mostrarsi nelle azioni, perché è solo le azioni degli animali che noi possiamo osservare. Essi possono avere menti in cui ha luogo ogni sorta di avvenimenti, ma non possiamo conoscere niente circa le loro menti eccetto che tramite inferenze tratte dalle loro azioni; e più tali inferenze sono esaminate, più dubbie appaiono. Comunque sembrerebbe che soltanto le azioni dovrebbero essere il test per i desideri degli animali. Da ciò si può facilmente concludere che il desiderio di un animale non è nient'altro se non una caratteristica di una certa serie di azioni, cioé quelle che devono essere considerate come ispirate dal desiderio in questione. E quando è stato mostrato che questo punto di vista fornisce una spiegazione soddisfacente del desiderio animale, non è difficile mostrare che la stessa spiegazione è applicabile ai desideri degli esseri umani.
Dal comportamento di un animale familiare giudichiamo con facilità se è affamato o assetato, soddisfatto o scontento, curioso o terrorizzato. La verifica del giudizio, per quanto essa sia possibile, deve derivare dalle azioni immediatamente successive dell'animale. Molte persone direbbero che prima inferiscono qualcosa circa lo stato della mente dell'animale – se esso sia affamato o assetato e così via – e quindi derivano le proprie aspettative circa la successiva condotta. Ma tutto questo giro intorno alla supposta mente dell'animale è totalmente non necessario. Possiamo dire semplicemente: il comportamento dell'animale durante l'ultimo minuto ha avuto quelle caratteristiche che contraddistinguono ciò che è chiamata “fame”, ed è probabile che le azioni dell'animale durante il prossimo minuto saranno simili da questo punto di vista, a meno che non trovi del cibo o sia interrotto da un impulso più forte, come la paura. Un animale affamato è inquieto, va nei posti dove spesso si trova il cibo, esso annusa con il suo naso o scruta con i suoi occhi o comunque accresce la sensibilità dei suoi organi di senso; nonappena è abbastanza vicino al cibo da rilevarne la presenza tramite gli organi di senso procede con tutta la velocità e inizia a mangiare; dopo di che, se la quantità di cibo è stata sufficiente, il suo intero comportamento cambia: è molto probabile chesi sdrai e dorma. Queste cose e simili sono fenomeni osservabili che distinguono un animale affamato da uno che non lo è. Il segno caratteristico attraverso il quale riconosciamo una seria di azioni che manifestano la fame non è lo stato mentale dell'animale, che non possiamo osservare, ma qualcosa nel comportamento corporeo; è questo tratto osservabile nel comportamento corporeo che propongo di chiamare “fame”, non qualche mitica possibilità certamente inconoscibile che sia un ingrediente della mente dell'animale.
Generalizzando ciò che succede nel caso della fame possiamo dire che ciò che chiamiamo desiderio in un animale si mostra sempre in un ciclo di azioni aventi certe caratteristiche piuttosto ben marcate. In primo luogo vi è uno stato di attività, con le caratteristiche di cui parleremo fra poco, consistente di movimenti atti al conseguimento di un certo risultato; questi movimenti, a meno che siano interrotti, continuano fino a quando il risultato è stato ottenuto, dopo di che vi è usualmente un periodo di relativa calma. Un ciclo di azioni di questa sorta ha caratteristiche che ci permettono di distinguerlo nettamente dai movimenti della materia morta. Le più notevoli di queste caratteristiche sono (1) l'appropriatezza delle azioni per la realizzazione di un certo risultato; (2) la continuazione della azione fino a che il risultato non è stato conseguito. Nessuna di queste può essere spinta oltre un certo limite. Può essere sia (a) in qualche misura presente nella materia morta, sia (b) in grande misura assente negli animali, mentre i vegetali si trovano in una posizione intermedia, e mostrano solo una forma più indistinta di quel comportamento che ci spinge ad attribuire il desiderio agli animali. (a) Si può dire che il fiume “desidera” l'acqua del mare, grossolanamente parlando, perché rimane in incessante movimento fino a che raggiunge o il mare o un posto da cui non può uscire senza salire, e perciò possiamo dire che è ciò che desidera mentre scorre. Non diciamo così perché possiamo rendere conto del comportamento dell'acqua tramite le leggi della fisica; e se conoscessimo di più circa gli animali, potremmo ugualmente cesssare di attribuirgli desideri, poiché potremmo trovare che le reazioni fisiche e chimiche siano sufficienti per rendere conto del loro comportamento. (b) Molti dei movimenti degli animali non esibiscono le caratteristiche dei cicli che sembrano esprimere il desideio. Ci sono innanzitutto i movimenti che sono “meccanici” come il dormire e il cadere, dove le ordinarie forze fisiche operano sul corpo dell'animale proprio come se si trattasse di materia morta. Un animale che cade da una scogliera può fare un certo numero di gesti disperati mentre è in aria, ma il suo centro di gravità si muoverà esattamente come farebbe se l'animale fosse morto. In questo caso, se l'animale muore alla fine della caduta abbiamo, a prima vista, proprio le caratteristiche di un ciclo di azioni esprimenti il desiderio, e cioé movimenti incessanti fino a che si raggiunge il suolo e quindi la quiete. Cionondimeno non sentiamo la tentazione di dire che l'animale desiderava ciò che è successo, in parte per la natura ovviamente meccanica dell'intero fatto, in parte perché, se l'animale sopravvive alla caduta, tende a non ripetere l'esperienza.
Vi sono ancora altre ragioni ma di esse non desidero parlare. Tra i movimenti meccanici ci sono i movimenti interrotti, come quando un uccello sta per mangiare i tuoi migliori piselli ed è spaventato dal ragazzo che tu impieghi a tale scopo. Se le interruzioni sono frequenti e il compimento di un ciclo è raro, le caratteristiche tramite cui sono osservati i cicli possono divenire così confusi da essere quasi irriconoscibili. Il risultato di queste varie considerazioni è che la differenza fra gli animali e la materia morta, quando ci limitiamo all'osservazione esterna non scientifica dell'intero comportameno, è una questione di grado e non è molto precisa. È per questa ragione che è sempre stato possibile per le persone stravaganti sostenere che anche i tronchi e le pietre hanno qualche vago genere di anima. L'evidenza a favore del fatto che gli animali abbiano delle anime è così debole che, se la si assumesse come conclusiva, uno potrebbe fare il passo successivo ed estendere l'argomento per analogia a tutta la materia. Cionondimeno, nonostante la vaghezza e i casi dubbi, l'esistenza di cicli nel comportamento degli animali è una caratteristica diffusa che prima facie li distingue dalla materia ordinaria; e io penso che sia la caratteristica che ci porta ad attribuire desideri agli animali, poiché il loro comportameno assomiglia al nostro quando (diciamo) agiamo spinti dal desiderio.
Adotterò le seguenti definizioni per descrivere il comportamento degli animali:
Un “ciclo di comportamento” è una serie di movimenti volontari o riflessi di un animale, tendenti alla produzione di un certo risultato, e che continuano fino a che questo risultato è stato prodotto, a meno che siano interrotti dalla morte, da cause accidentali o da qualche altro ciclo di comportamento (Qui “accidentale” può essere definito come l'intervento di leggi puramente fisiche che causano movimenti meccanici.)
Lo “scopo” di un ciclo di comportamento è il risultato che gli pone fine, normalmente con una condizione di quiete – ammesso che non vi siano interruzioni.
Un animale è detto “desiderare” lo scopo del ciclo di comportamento mentre il ciclo comportamentale è in atto.
Credo che queste definizioni siano adeguate anche agli scopi e ai desideri umani, ma per ora mi interessano solo gli animali e ciò che può essere appreso tramite l'osservazione esterna. Desidero fortemente che alle parole “scopo” e “desiderio” non sia dato alcun significato oltre quello coinvolto nelle definizioni di cui sopra.
Non abbiamo ancora considerato quale sia la natura dello stimolo iniziale di un ciclo di comportamento. È proprio qui che le visioni usuali del desiderio sembrano essere più fortemente basate. L'animale affamato compie dei movimenti finché non trova il cibo; sembra naturale perciò supporre che l'idea del cibo sia presente attraverso il processo, e che il pensiero del fine da raggiungere fornisca il movimento all'intero processo. Tale visione, comunque, è ovviamente insostenibile in molti casi, e specialmente in quelli in cui è coinvolto l'istinto. Si prendano ad esempio la riproduzione e l'allevamento dei piccoli. Gli uccelli si accoppiano, costruiscono il nido, vi depongono le uova, le covano, nutrono i giovani uccellini, e se ne prendono cura fino a quando sono pienamente cresciuti. È totalmente impossibile supporre che questa serie di azioni, che costituisce un ciclo di comportamento, sia ispirata da una previsione del fine, anche la prima volta che è eseguita [1]. dobbiamo supporre che lo stimolo all'esecuzione di ciascun atto è un impulso dal passato, non un'attrazione verso il futuro. L'uccello fa quello che fa, ad ogni stadio, poiché possiede un impulso per quella particolare azione, non perché percepisca che l'intero ciclo di azioni contribuirà alla preservazione della specie. Le stesse considerazioni si applicano agli altri istinti. Un animale affamato si sente inquieto, ed è condotto da impulsi istintivi a compiere i movimenti che gli danno il nutrimento; ma l'atto di cercare il cibo non è una evidenza sufficiente per concludere che l'animale ha il pensiero del cibo nella sua “mente”.
Venendo ora agli esseri umani, e a ciò che conosciamo delle nostre proprie azioni, sembra chiaro che ciò che in noi dà il via a un ciclo di comportamento è qualche sensazione del tipo di quelle che chiameremmo spiacevoli. Si prenda il caso della fame: abbiamo dapprima una sensazione interna spiacevole, che produce l'inclinazione a non rimanere seduti, una accresciuta sensibilità agli odori gustosi, e un'attrazione verso ogni cibo che vi sia nelle vicinanze. In ogni momento durante il processo possiamo diventare consci del fatto che abbiamo fame, nel senso che diciamo a noi stessi “Ho fame”; ma possiamo aver agito riferendoci al cibo per qualche tempo prima di questo momento. Mentre stiamo parlando o leggendo possiamo mangiare in piena incoscienza; ma compiamo le azioni di mangiare proprio come avremmo fatto se fossimo stati consci, ed esse cessano quando la fame è saziata. Ciò che chiamiamo “coscienza” sembra essere un mero spettatore del processo; anche quando dà ordini essi sono usualmente come quelli di un genitore saggio, tali che sarebbero stati obbediti anche se non fossero stati dati. Questo punto di vista può sembrare dapprima esagerato, ma più le cosiddette volizioni e le loro cause sono esaminate e più essa ci si impone. La parte giocata dalle parole in tutto questo è complicata e costituisce una potente fonte di confusione; ritornerò a ciò più tardi. Per ora sono ancora interessato al desiderio primitivo, come quello esistente nell'uomo, ma nella forma in cui l'uomo mostra la sua affinità con gli animali suoi antenati.
Il desiderio conscio è costituito parzialmente di ciò che è essenziale al desiderio, in parte di credenze circa ciò che vogliamo. È importante chiarire quella parte che non consiste di credenze.
L'elemento primario e non cognitivo del desiderio sembra essere una spinta, non un'attrazione, un impulso al di là del reale, piuttosto che un'attrazione verso l'ideale. Certe sensazioni e altri avvenimenti mentali hanno la proprietà che noi definiamo spiacevolezza; essi causano quei movimenti corporei che sono in grado di determimare la loro cessazione. Quando la spiacevolezza cessa, o anche diminuisce apprezzabilmente, abbiamo sensazioni che possiedono la proprietà che chiamiamo piacere. Le sensazioni piacevoli non stimolano affatto delle azioni, o al più stimolano quell'azione che è atta a prolungarle. Tornerò brevemente a considerare cosa la spiacevolezza e il piacere siano in se stessi; per ora è la loro connessione con l'azione e il desiderio che ci interessa. Abbandonando momentaneamente il punto di vista del comportamentismo possiamo presumere che le sensazioni esperite dagli animali affamati comportino spiacevolezza e stimolino quei movimenti capaci di portare al cibo che è fuori dalle gabbie. Quando hanno raggiunto il cibo e lo hanno mangiato la spiacevolezza cessa e le loro sensazioni diventano piacevoli. Sembra, erroneamente, che gli animali avessero avuto questa situazione in mente per tutto il tempo, quando effettivamente essi sono stati costantemente spinti dalla spiacevolezza. E quando un animale è riflessivo, come lo sono alcuni uomini, arriva a pensare di aver avuto sempre in mente la situazione finale; talvolta conosce quale situazione fornirebbe soddisfazione, sicché effettivamente la spiacevolezza provoca il pensiero di ciò che può alleviarlo. Cionondimeno la sensazione caratterizzata dalla spiacevolezza rimane il motore primo.
Questo ci porta alla questione della natura dello spiacevole e del piacevole. A partire da Kant è diventato usuale riconoscere una grande tripartizione dei fenomeni mentali, che consistono di conoscenza, desiderio e sentimento, dove “sentimento” è usato per significare piacere e spiacevolezza. Naturalmente “conoscenza” è una parola troppo definita: gli stati della mente interessati sono raggruppati insieme come “cognitivi” e abbracciano non solo la credenza ma anche le percezioni, i dubbi, e la comprensione di concetti. Anche “desiderio” ha un senso più ristretto di ciò che si intende: per esempio in questa categoria bisogna includere la volontà e di fatto ogni cosa che comporti qualche genere di propensione o “conazione” come si dice in gergo tecnico. Non credo che questa triplice ripartizione dei contenuti della mente non abbia molto valore. Io credo che le sensazioni (incluse le immagini) costituiscano la “sostanza” della mente, e che ogni altro contenuto della mente possa essere analizzato come gruppi di sensazioni relate in vari modi, o proprietà di sensazioni o di gruppi di sensazioni. Per quanto concerne la credenza darò fondamento a questo punto di vista nelle successive lezioni. Per quanto riguarda il desiderio ho fornito qualche fondamento in questa lezione. Per ora sono la spiacevolezza e il piacere che ci interessano. A loro riguardo possono grossomodo essere sostenute tre teorie. Possiamo considerarli come unità esistenti separatamente in coloro che li esperiscono, o possiamo considerarli come qualità intrinseche delle sensazioni e di altri avvenimenti mentali, o possiamo considerarli come meri nomi per le proprietà causali dei fatti che sono spiacevoli o piacevoli. Riguardo alla prima di queste teorie, e cioé quella che considera la spiacevolezza e il piacere come contenuti effettivi in coloro che li esperiscono, io penso che non vi sia niente di conclusivo da dire in suo favore [2]. Essa è suggerita principalmente dall'ambiguità della parola “dolore”, che ha fuorviato molte persone, incluso Berkeley, a cui fornì uno degli argomenti per l'idealismo soggettivo. Possiamo usare “dolore” come opposto di “piacere” e “doloroso” come opposto di “piacevole”, o possiamo usare “dolore” per significare un certo tipo di sensazione, al livello delle sensazioni di caldo di freddo e di tatto. Il secondo uso della parola ha prevalso nella letteratura psicologica, ed ora non è più usata come opposto di “piacere”. Il dottor H. Head, in una recente pubblicazione, ha analizzato questa distinzione nei termini seguenti: [3]
“È preliminarmente necessario distinguere chiaramente tra “spiacevolezza” e “dolore”. Il dolore è una distinta qualità sensoriale equivalente al caldo e al freddo, e la sua intensità può essere misurata in relazione alla forza spesa nella stimolazione. D'altro canto la spiacevolezza è quella qualità della sensazione [feeling-tone] che si oppone direttamente al piacere. Può accompagnare sensazioni che in se stesse non sono essenzialmente dolorose; come per esempio quelle prodotte dal solletico alla pianta del piede. La reazione prodotta dal pungere ripetutamente contiene entrambi questi elementi; infatti il pungere provoca quella qualità sensoriale nota come dolore, accompagnata da una caratteristico disagio del sentire [disagreeble feeling-tone] che noi abbiamo chiamato spiacevolezza. D'altro canto la pressione eccessiva, eccetto che quando applicata direttamente ai centri nervosi, tende a provocare più spiacevolezza che dolore”
La confusione tra spiacevolezza e dolore ha portato le persone a considerare la spiacevolezza come una cosa più sostanziale di ciò che è, e ciò ha avuto un effetto sul modo di vedere il piacere, poiché spiacevolezza e piacere sotto questo aspetto sono allo stesso livello. Non appena la spiacevolezza è distinta chiaramente dalla sensazione di dolore, diventa più naturale considerare la spiacevolezza e il piacere come proprietà di avvenimenti mentali che riguardarli come avvenimenti mentali separati. Perciò tralascerò il punto di vista secondo cui essi sono avvenimenti mentali separati e li considererò come proprietà di quelle esperienze che sarebbero chiamate rispettivamente spiacevolezza e piacere.
Rimane da prendere in considerazione se essi siano qualità effettive di tali avvenimenti o si differenzino come proprietà causali. Io non vedo nessun modo per decidere la questione; entrambi i punti di vista sembrano ugualmente capaci di rendere conto dei fatti. Se questo è vero è più prudente evitare l'assunzione che essi siano tali qualità intrinseche degli avvenimenti mentali che sono in questione e assumere solo le differenze causali che sono innegabili. Senza condannare la teoria dell'intrinsecità possiamo definire la spiacevolezza e il piacere come consistenti in proprietà causali e affermare solo ciò che è valido in entrambe le teorie. Conseguentemente diremo:
“spiacevolezza” è una proprietà di una sensazione o di altri fatti mentali consistente nel fatto che l'avvenimento in questione stimola dei movimenti volontari o riflessi che tendono a produrre qualche più o meno definito cambiamento implicante la cessazione dell'evento.
“Piacere” è una proprietà di una sensazione o di altri fatti mentali consistente nel fatto che l'avvenimento in questione sia non stimola alcun movimento volontario o riflesso o, se lo fa, stimola solo quelli che tendono a prolungare l'evento in questione [4].
Il desiderio “conscio”, che dobbiamo ora considerare, consiste nel desiderio nel senso già discusso, insieme a una credenza vera circa il suo “scopo”, i.e. circa lo stato di cose che porterà quiescienza con la cessazione della spiacevolezza. Se la nostra teoria del desiderio è corretta una credenza circa il suo scopo può ben essere erronea poiché solo l'esperienza può mostrare cosa causi la cessazione della spiacevolezza. Quando l'esperienza necessaria è comune e semplice, come nel caso della fame, l'errore non è molto probabile. Ma in altri casi – e.g. il desiderio erotico in coloro che hanno avuto poca o nessuna esperienza della sua soddisfazione – ci si può aspettare degli errori che infatti succedono spesso. La pratica di inibire gli impulsi, che è grandemente necessaria alla vita civilizzata, rende l'errore più semplice impedendo l'esperienza delle azioni a cui il desiderio avrebbe altrimenti condotto e causando spesso il trascurare o il dimenticare completamente gli impulsi inibiti stessi. Gli errori perfettamente naturali che sorgono così costituiscono una larga porzione di ciò che, in parte erroneamente, è chiamata illusione [self-deception], attribuita da Freud al “censore”.
Ma c'è un punto su cui dobbiamo ulteriormente soffermarci, e cioé che il credere che qualcosa sia desiderato ha spesso la tendenza a causare proprio il desiderio in cui si crede. È questo fatto che rende l'effetto della “coscienza” sul desiderio così complicato.
Quando crediamo di desiderare un certo stato di cose, ciò spesso tende a causare un desiderio reale per esso. Ciò è dovuto parzialmente all'influenza delle parole sulle nostre emozioni, nella retorica per esempio, e parzialmente al fatto generale che la spiacevolezza normalmente appartiene alla credenza che noi desideriamo una certa cosa che non possediamo. Così ciò che originariamente era una falsa opinione circa l'oggetto del desiderio acquisisce una certa verità: la falsa opinione genera un desiderio secondario sussidiario che cionondimeno diviene reale. Facciamo un esempio. Supponete di essere stati lasciati in un modo che offende la vostra vanità. Il vostro desiderio naturale e impulsivo sarà del tipo espresso nel poema di Donne:
Quando per il tuo disprezzo, o assassina, io sono morto,
in cui spiega come perseguiterà la povera donna sotto forma di fantasma, impedendole di avere un attimo di pace. Ma due cose ci impediscono di esprimerci tanto naturalmente: da un lato la nostra vanità non vorrà riconoscere quanto duramente siamo stati colpiti; d'altro canto la nostra convinzione di essere persone civilizzate e umane che non può indulgere a tali crudi desideri di vendetta. Proverete pertanto un'inquietudine che dapprima appare senza scopo ma che infine si trasforma in un desiderio conscio di cambiare mestiere, di girare il mondo, o di nascondere la vostra identità e vivere a Putney, come l'eroe di Arnold Bennett. Sebbene la causa prima di questo desiderio sia un falso giudizio circa il vostro precedente desiderio inconscio, il nuovo desiderio conscio ha la sua genuinità derivata, e può influenzare le vostre azioni fino al punto di mandarvi in giro per il mondo. L'errore iniziale, comunque, avrà due generi di effetti. In primo luogo, nei momenti in cui il controllo non è esercitato, sotto l'influenza della stanchezza o del bere o di un delirio, potremmo dire cose miranti a ingiuriare l'ingannatrice fedifraga. In secondo luogo troverete il viaggiare deludente e l'oriente meno affascinante di come avevate sperato – a meno che, un giorno, voi non sentiate che la malvagia è stata a sua volta lasciata. Se ciò avviene, crederete di provare ancora per lei sincera simpatia, ma improvvisamente sarete più deliziati di prima dalle bellezze delle isole tropicali o dalle meraviglie dell'arte cinese. Un desiderio secondario, derivato da un falso giudizio circa un desiderio primario, ha il suo potere di influenzare l'azione, ed è pertanto un desiderio reale (in accordo con la nostra definizione). Ma esso non ha lo stesso potere di un desiderio primario di portare alla soddisfazione completa quando sia realizzato; finché il desiderio primario rimane insoddisfatto, il disagio continua nonostante il successo del desiderio secondario. Di qui sorge la credenza nella vanità dei desideri umani: i desideri vani sono quelli secondari, ma credenze ingannatrici ci impediscono di renderci conto che essi sono secondari.
Ciò che propriamente è detto illusione [self-deception] sorge quando le credenze si sostituiscono ai desideri. Desideriamo molte cose che non possiamo ottenere: di essere universalmente popolari e ammirati, che le nostre opere siano lo splendore del secolo, e che l'universo sia così ordinato da garantire la felicità ultima a tutti, sebbene non ai nostri nemici prima che si pentano e siano stati purificati dalla sofferenza. Tali desideri sono troppo ampi per essere soddisfatti attraverso i nostri sforzi. Ma si scopre che una considerevole porzione della soddisfazione che queste cose ci porterebbero se fossero realizzate è raggiungibile tramite l'operazione più semplice di credere che esse sono o saranno realizzate. Questo desiderio delle credenze [desire for beliefs] come opposto al desiderio dei fatti reali [desire for the actual facts] è un caso particolare di desiderio secondario e come per tutti i desideri secondari la sua soddisfazione non porta alla completa cessazione della spiacevolezza iniziale. Cionondimeno il desiderio di credenze come opposto al desiderio di fatti è estremamente potente sia individualmente sia socialmente. A seconda della forma della credenza desiderata, esso è chiamato vanità, ottimismo o religione. Quelli che hanno sufficiente potere usualmente imprigionano o mettono a morte chiunque provi a scuotere la loro fede nella loro propria eccellenza o in quella dell'universo; è per questa ragione che la diffamazione e la blasfemia sono sempre state e ancora sono azioni criminali.
È principalmente attraverso il desiderio di credenze che la natura primitiva del desiderio è stata tanto nascosta, e che la parte giocata dalla coscienza è stata così confusa e esagerata.
Possiamo ora riassumere la nostra analisi del desiderio e del sentimento.
Un fatto mentale di qualsiasi genere – sensazione, immagine, credenza oppure emozione – può essere la causa di una serie di azioni che continuano, se non interrotte, fino a che si realizza un più o meno definito stato di cose. Tale serie di azioni la chiamiamo un “ciclo comportamentale”. Il grado di precisione può variare grandemente: la fame richiede in generale solo del cibo, mentre la vista di un particolare pezzo di cibo suscia un desiderio che richiede il mangiare quel pezzo di cibo. La proprietà di causare un tale ciclo di fatti è chiamata “spiacevolezza”; la proprietà degli avvenimenti mentali in cui il ciclo finisce è chiamato “piacere”. Le azioni costituenti il ciclo non devono essere puramente meccaniche, i.e. devono essere dei movimenti corporei nella cui causazione sono coinvolte le speciali proprietà del tessuto nervoso. Il ciclo termina con una condizione di quiete, o di quella azione che tenda solo a preservare lo status quo. Lo stato di cose in cui questa condizione di quiete è raggiunta è chiamato “scopo” del ciclo, e il fatto mentale iniziale comportante spiacevolezza è detto “desiderio” dello stato di cose che porta alla quiete. Un desiderio è chiamato “conscio” quando è accompagnato da una credenza vera circa lo stato di cose che apporterà quiete; altrimenti è detto inconscio. Tutti i desideri primitivi sono inconsci, e negli esseri umani le credenze circa gli scopi dei desideri sono spesso erronee. Queste credenze errate generano desideri secondari, che causano varie e interessanti complicazioni nella psicologia del desiderio umano, senza alterare fondamentalmente il carattere che condivide col desiderio animale.
NOTE ALLA LEZIONE III
[1] Per esempi circa i nidi degli uccelli, cfr. Semon, "Die Mneme," pp. 209, 210.
[2] Vari argomenti in suo favore sono stati avanzati da A. Wohlgemuth, "On the feelings and their neural correlate, with an examination of the nature of pain," "British Journal of Psychology," viii, 4. (1917). Ma poiché questi argomenti sono largamente una reductio ad absurdum di altre teorie, tra le quali non è inclusa quella che sto sostenendo, non posso considerarli come prove di ciò che è sostenuto.
[3] "Sensation and the Cerebral Cortex," "Brain," vol. xli, part ii (Settembre, 1918), p. 90. Cfr. anche Wohlgemuth, loc. cit. pp. 437, 450.
[4] Cf. Thorndike, op. cit., p. 243.
LEZIONE IV. INFLUENZA DELLA STORIA PASSATA SUGLI AVVENIMENTI PRESENTI NEGLI ORGANISMI VIVENTI
In questa lezione tratteremo di una caratteristica molto generale che distingue ampiamente, sebbene non assolutamente, il comportamento degli organismi viventi da quello della materia morta. La caratteristica in questione è questa:
La risposta di un organismo a un dato stimolo è molto spesso dipendente dalla storia passata dell'organismo, e non soltanto dallo stimolo e dallo stato presente finora scopribile dell'organismo.
Questa caratteristica la si esprime dicendo che “il bambino che si è scottato teme il fuoco”. La scottatura può non aver lasciato tracce visibili, eppure modificare la reazione del bambino in presenza del fuoco. In tali casi è usuale assumere che il passato operi modificando la struttura del cervello, non direttamente. Non voglio suggerire che questa ipotesi sia falsa; voglio solo sottolineare che si tratta di una ipotesi. Alla fine di questa lezione esaminerò le ragioni in suo favore. Se ci limitiamo ai fatti che sono stati effettivamente osservati, dobbiamo dire che gli avvenimenti passati, sommati allo stimolo presente e alla condizione presente e accertabile dell'organismo, sono compresi fra le cause della risposta.
La caratteristica non è interamente confinata agli organismi viventi. Ad esempio l'acciaio magnetizzato ha lo stesso aspetto dell'acciaio che non è stato magnetizzato ma il suo comportamento è in qualche modo differente. Nel caso della materia morta, comunque, tali fenomeni sono meno frequenti ed importanti che nel caso degli organismi viventi ed è assai meno difficile inventare ipotesi soddisfacenti circa i cambiamenti di struttura microscopica che media tra i fatti del passato e la presente risposta mutata. Nel caso di organismi viventi, praticamente tutto ciò che è distintivo sia del loro comportamento fisico che di quello mentale è connesso a questa persistente influenza del passato. Perciò, largamente parlando, il mutamento nella risposta è usualmente di un genere che è biologicamente vantaggioso per l'organismo.
Seguendo un suggerimento di Semon ("Die Mneme," Leipzig, 1904; seconda edizione, 1908, traduzione inglese, Allen & Unwin, 1921; "Die mnemischen Empfindungen," Leipzig, l909), daremo il nome di “fenomeni mnestici” a quelle risposte di un organismo che, per quanto finora osservato, possono essere ricondotte a leggi causali solo includendo avvenimenti passati della storia dell'organismo come parte delle cause della risposta presente. Non sto semplicemente intendendo – come potrebbe essere – che i fatti del passato sono parte di una catena di cause che portano all'evento presente. Ciò che intendo è che nel tentativo di stabilire la causa prossima dell'evento presente, qualche evento passato deve essere incluso, a meno che vogliamo rifugiarci nell'ipotetica modifica della struttura cerebrale. Per esempio: qualcuno sente odore di fumo di torba e si ricorda qualche occasione in cui l'aveva già sentito. La causa di questo ricordo, considerati i fenomeni osservabili, consiste sia dell'odore di fumo di torba (stimolo presente) che del precedente avvenimento (esperienza passata). Lo stesso stimolo non produrrà lo stesso ricordo in un altro uomo che non condivida la vostra precedente esperienza, sebbene l'esperienza precedente non lasci tracce osservabili nella struttura del cervello. In accordo con la massima “stessa causa, stesso effetto” non possiamo perciò considerare l'odore di fumo di torba da solo come la causa del vostro ricordo poiché non ha lo stesso effetto negli altri casi. La causa del vostro ricordo deve essere sia l'odore del fumo di torba che il fatto passato. Conseguentemente il vostro ricordo è un esempio di ciò che chiamiamo “fenomeni mnestici”.
Prima di proseguire sarà bene fornire esempi delle differenti classi di fenomeni mnestici.
(a) Abitudini acquisite. - nella seconda lezione abbiamo visto come gli animali possano imparare dall'esperienza come uscire da gabbie o labirinti, o effettuare altre azioni che sono a loro utili ma non sono dettate dal solo istinto. Un gatto che è messo in una gabbia di cui ha già avuto esperienza si comporta in maniera differente dal modo in cui si è comportato la prima volta. Possiamo con facilità inventare ipotesi, che è molto probabile siano vere, circa le connessioni nel cervello causate dall'esperienza passata, ed esse stesse causanti la risposta differente. Ma il fatto osservabile è che lo stimolo di essere nella gabbia produce risultati differenti con la ripetizione, e che la causa accertabile del comportamento del gatto è non soltanto la gabbia e la sua organizzazione accertabile, ma anche la sua storia passata riguardante la gabbia. Dal nostro attuale punto di vista la materia è indipendente dal problema se il comportamento del gatto sia dovuto a qualche fatto mentale chiamato “conoscenza” o mostri semplici abitudini comportamentali. La nostra conoscenza abituale non sempre è nelle nostre menti, ma è richiamata dallo stimolo appropriato. Se ci chiedono “qual è la capitale della Francia?” rispondiamo “Parigi” a causa della passata esperienza; l'esperienza passata è così essenziale come il presente problema nella causazione della nostra risposta. Così tutta la nostra conoscenza abituale consiste di abitudini acquisite, e cade sotto lo studio dei fenomeni mnestici.
(b) Immagini. - dirò di più circa le immagini in una prossima lezione; per ora sono soltanto interessato ad esse nella misura in cui sono “copie” di sensazioni passate. Quando sentite parlare di New York probabilmente qualche immagine vi si presenta alla mente, o del posto stesso (se vi siete stati) o di qualche rappresentazione (se non vi siete stati). L'immagine è dovuta alla vostra esperienza passata, così come pure lo stimolo presente costituito dalle parole “New York”. In maniera simile, le immagini che avete nei sogni sono tutte dipendenti dall'esperienza passata, così come dal presente stimolo costituito dal dormire. Si crede generalmente che tutte le immagini, nelle loro parti semplici, sono copie di sensazioni; se è così, il loro carattere mnestico è evidente. Questo è importante non solo di per sé ma anche perché, come vedremo più tardi, le immagini giocano un ruolo essenziale in ciò che è detto “pensiero”.
(c) Associazione. - l'intero fatto dell'associazione, dal lato della mente, consiste nel fatto che quando esperiamo ancora qualcosa che abbiamo già esperito tendiamo a richiamare il contesto della precedente esperienza. L'odore di fumo di torba che ricorda una scena precedente è un esempio che abbiamo discusso poco fa. Si tratta ovviamente di un fenomeno mnestico. Vi è anche una associazione più puramente fisica che è indistinguibile dall'abitudine fisica. Questo è un genere di fatto studiato da Mr. Thorndike negli animali, dove un certo stimolo è associato con un certo atto. È il genere di cose che sono insegnate ai soldati nell'addestramento, ad esempio. In tale caso non c'è bisogno che vi sia qualcosa di mentale, ma soltanto un'abitudine corporea. Non c'è distinzione essenziale fra associazione e abitudine, e le osservazioni svolte concernenti l'abitudine come fenomeno mnestico sono ugualmente applicabili all'associazione.
(d) Elementi non sensibili nella percezione. Quando percepiamo qualche oggetto di un genere familiare, molto di ciò che appare soggettivamente essere immediatamente dato è in realtà derivato dall'esperienza passata. Quando vediamo un oggetto, diciamo un penny, sembriamo essere consci della sua forma “reale”; abbiamo l'impressione di qualcosa di circolare, non di qualcosa di ellittico. Nell'imparare a disegnare è necessario acquisire l'arte di rappresentare le cose in accordo con la sensazione, non in accordo con la percezione. E l'apparenza visiva è completata dal sentire come l'oggetto sarebbe al tatto, e così via. Questo completare e fornire la forma “reale” (e così via) consiste dei maggiori correlati usuali del nucleo della sensazione nella nostra percezione. Può accadere che, in casi particolari, i correlati siano inusuali; per esempio se ciò che vediamo è un tappeto fatto per sembrare come delle piastrelle. Se succede questo, la parte non sensibile della percezione sarà illusoria, i.e. fornirà qualità che l'oggetto in questione in realtà non possiede. Ma di regola gli oggetti hanno le qualità aggiunte dalla percezione, come ci si aspetterebbe, poiché l'esperienza di ciò che è usuale è la causa dell'aggiunta. Se la nostra esperienza fosse stata differente non avremmo completato la sensazione nello stesso modo, eccetto che nella misura in cui il completamento sia istintivo, non appreso. Sembrerebbe che, nell'uomo, ciò che costituisce la percezione dello spazio, inclusa la correlazione di vista e tatto e così via, è quasi interamente acquisita. In questo caso c'è un ampio elemento mnestico in tutte le percezioni comuni tramite cui maneggiamo gli oggetti comuni. E, per considerare un altro genere di esempio, si immagini quale sbalorditiva cosa sarebbe sentire un gatto abbaiare. L'emozione dipenderebbe dalle passate esperienze, e sarebbe perciò un fenomeno mnestico in accordo con la definizione.
(e) Memoria come conoscenza. - Il genere di memoria di cui sto ora parlando è una conoscenza definita di qualche evento passato nell'esperienza di qualcuno. Di tanto in tanto ci ricordiamo cose che ci sono accadute perché qualcosa nel presente ce le ricorda. Esattamente lo stesso fatto presente non richiamerebbe la stessa memoria se la nostra esperienza passata fosse differente. Così il nostro ricordare è causato da
(1) Lo stimolo presente
(2) Il fatto del passato
Si tratta perciò di un fenomeno mnestico in accordo con la nostra definizione. Una definizione di “fenomeni mnestici” che non includa la memoria sarebbe naturalmente una definizione pessima. L'essenziale della definizione non è che essa include la memoria, ma che la include come uno dei fenomeni che abbracciano tutto ciò che è caratteristico nel soggetto oggetto della psicologia.
(f) Esperienza. - La parola “esperienza” è spesso usata in maniera vaga. Come abbiamo visto James la usa per riferirsi alla totalità della sostanza prima del mondo, ma questo uso è soggetto ad una critica, e cioé che in un mondo totalmente fisico le cose accadono senza che vi sia alcuna esperienza. Sono solo i fenomeni mnestici che includono l'esperienza. Possiamo dire che un animale “esperisce” un fatto quando questo fatto modifica il successivo comportamento dell'animale, i.e. quando esso è una parte mnestica della causa di fatti futuri della vita dell'animale. Il bambino ustionato che teme il fuoco ha “esperito” il fuoco, mentre un bastone che vi è stato gettato sopra e poi tolto non ha “esperito” niente, poiché non mostra più resistenza di prima ad esservi gettato dentro. L'essenza dell'”esperienza” è la modifica del comportamento prodotta da ciò che si è esperito. Possiamo, infatti, definire una catena di esperienze, o una biografia, come una serie di fatti collegati dalla causazione mnestica. Penso che sia questa caratteristica, più che ogni altra, che distingue le scienze che si occupano degli organismi viventi dalla fisica.
L' autore più esperto dei fenomeni mnestici che io conosca è Richard Semon, la parte fondamentale della cui teoria mi cimenterò a riassumere prima di proseguire:
Quando un organismo, animale o pianta, è soggetto ad uno stimolo che produce in esso qualche stato di eccitazione, la rimozione dello stimolo gli permette il ritorno alla condizione di equilibrio. Ma il nuovo stato di equilibrio è differente dal vecchio, come può vedersi dalla mutata capacità di reazione. Lo stato di equilibrio prima dello stimolo può essere chiamato “lo stato primario di indifferenza”, quello dopo la cessazione dello stimolo, “stato secondatio di indifferenza”. Definiamo l'”effetto engrafico” di uno stimolo come l'effetto che produce la differenza fra gli stati di indifferenza primario e secondario, e questa stessa differenza la definiamo come l'”engramma” dovuto allo stimolo. I “fenomeni mnestici” sono definiti come quelli dovuti agli angrammi; negli animali sono in particolare associati al sistema nervoso anche se non esclusivamente, anche nell'uomo.
Quando due stimoli occorrono assieme uno di essi che occorre successivamente può richiamare da solo la reazione. Chiamiamo ciò “influenza ekphorica”, e gli stimoli aventi questo carattere sono chiamati “stimoli ekforici”. In tal caso chiamiamo gli engrammi dei due stimoli “associati”. Tutti gli engrammi generati simultaneamente sono associati; vi è anche l'associazione degli engrammi sorti successivamente, sebbene questa sia riducibile a un'associazione simultanea. Di fatto non è uno stimolo isolato che lascia un engramma, ma la totalità degli stimoli in ogni momento; conseguentemente ogni parte di questa totalità tende, se ricorre, a far sorgere l'intera reazione che si era precedentemente manifestata. Semon sostiene che gli engrammi possono essere ereditati e che le abitudini innate di un animale possono essere dovute all'esperienza dei suoi antenati; su questo tema riprende Samuel Butler.
Semon formula due “principi mnestici”. Il primo, o “legge di engrafia” è come segue: “Tutti gli eccitamenti simultanei di un organismo formano un connesso complesso di eccitazione simultaneo, che come tale lavora engraficamente, i.e. lascia dietro a sé un connesso complesso di engrammi, costituente un tutto” ("Die mnemischen Empfindungen," p. 146). Il secondo principio mnestico, o “legge dell'ekforia” è come segue: “Il ritorno parziale della situazione energetica che precedentemente si era espressa engraficamente opera ekforicamente su un complesso di engrammi simultaneo (ib., p. 173). Insieme, queste due leggi rappresentano in parte una ipotesi (l'engramma) e in parte un fatto osservabile. Il fatto osservabile è che quando un certo complesso di stimoli ha originariamente causato un certo complesso di reazioni, il ricorrere di parte dello stimolo tende a causare il ricorrede della totalità delle reazioni.
Le applicazioni delle idee fondamentali di Semon in vari ambiti sono interessanti e ingegnosi. Qualcuna la considereremo più avanti ma per ora è il carattere fondamentale dei fenomeni mnestici che è in questione.
Per quanto concerne la natura dell'engramma, Semon confessa che al momento è impossibile dire qualcosa di più che sostenere che deve consistere in qualche alterazione materiale nel corpo dell'organismo ("Die mnemischen Empfindungen," p. 376). Esso, infatti, ha la natura di una ipotesi invocata per usi teorici e non risulta dall'osservazione diretta. Senza dubbio la fisiologia, specialmente i disturbi della memoria legati a lesioni del cervello, fornisce delle basi a questa ipotesi; cionondimeno rimane un'ipotesi la cui validità sarà discussa alla fine di questa lezione.
Sono incline a ritenere che, allo stato presente della fisiologia, l'introduzione dell'engramma non serva a semplificare la spiegazione dei fenomeni mnestici. Penso che possiamo formulare le leggi conosciute di tali fenomeni totalmente in termini di fatti osservabili, ammettendo provvisoriamente ciò che possiamo chiamare “causazione mnestica”. Con ciò intendo quel tipo di causazione di cui parlai all'inizio di questa lezione, ossia quel tipo in cui la causa prossima consiste non solo di un evento presente, ma di questo insieme con un evento passato. Non voglio sostenere che questa forma di causazione sia ultima, ma che, allo stato attuale della nostra conoscenza, essa fornisce una semplificazione, e ci mette in grado di enunciare le leggi del comportamento in termini meno ipotetici di quelli che altrimenti avremmo dovuto utilizzare.
Il più chiaro esempio di cosa intendo è il ricordo di un evento passato. Ciò che osserviamo è che un certo stimolo presente ci porta a ricordare certi fatti, ma durante il periodo in cui non ci stiamo ricordando di essi, non vi è niente nelle nostre menti che possa essere scoperto e che sia chiamato la loro memoria. Le memorie, in quanto fatti mentali, sorgono di tanto in tanto ma non esistono, a quanto pare, in qualche forma mentre sono “latenti”. Infatti quando diciamo che sono “latenti” intendiamo solamente che essi esisteranno date certe circostanze. Quindi se ci deve essere qualche differenza invariabile tra la persona che può ricordare un certo fatto e la persona che non lo può, tale differenza invariabile deve risiedere non in qualcosa di mentale ma nel cervello. È molto probabile che vi sia tale differenza nel cervello, ma la sua natura è sconosciuta e rimane ipotetica. Ogni cosa che finora è stata materia di osservazione riguardo a questo problema può essere raggruppato nell'enunciato: quando un certo complesso di sensazioni sono accadute in un uomo, la ricorrenza di una parte del complesso tende a far sorgere il ricordo del tutto. In maniera simile possiamo riunire tutti i fenomeni mnestici negli organismi viventi sotto una singola legge, che contiene ciò che è già verificabile nelle due leggi di Semon. Questa singola legge è:
Se uno stimolo complesso A ha causato una reazione complessa B in un organismo, l'occorrere in futuro di una parte di A tende a causare l'intera reazione B.
Questa legge avrebbe bisogno di essere integrata da qualche spiegazione dell'influenza della frequenza, e così via; ma sembra contenere la caratteristica essenziale dei fenomeni mnestici, senza mescolanza di nulla di ipotetico.
Ogniqualvolta l'effetto risultante dallo stimolo di un organismo differisce a causa della storia passata dell'organismo, senza che si sia capaci di trovare qualche differenza rilevante nella sua attuale struttura, parleremo di “causazione mnestica”, ammesso che si possa scoprire le leggi che esprimono l'influenza del passato. Nella causazione fisica ordinaria, come appare al senso comune, abbiamo uniformi sequenze approssimate del tipo “al lampo segue il tuono”, “all'ubriacatura segue il mal di testa” e così via. Nessuna di queste sequenze è teoricamente invariabile poiché qualcosa può intervenire a disturbarle. Al fine di ottenere leggi fisiche invariabili, dobbiamo usare equazioni differenziali, le quali mostrano la direzione del cambiamento in ogni momento e non l'intero cambiamento dopo un intervallo finito, qualsivoglia piccolo. Ma per gli scopi della vita quotidiana molte sequenze sono invariabili sotto tutti gli aspetti. Con il comportamento degli esseri umani, comunque, non è così che succede. Se dite a un inglese “il tuo naso è sporco di fuliggine” egli se lo pulità, ma non ci sarà questo effetto se direte la stessa cosa a un francese che non conosca l'inglese. L'effetto delle parole sull'ascoltatore è un fenomeno mnestico poiché dipende dall'esperienza passata che gli fornisce la comprensione delle parole. Se ci devono essere delle leggi causali puramente psicologiche, non tenendo conto del cervello e del resto del corpo, esse non avranno la forma “X ora causa Y ora”, ma
“A, B, C, ... nel passato, insieme a X ora, causa Y ora”. Infatti non può essere sostenuto con successo che la nostra comprensione di una parola, per esempio, sia un contenuto attuale ed esistente della mente quando non si stia pensando alla parola. È solo quella che può essere chiamata “disposizione”, i.e. essa è suscitata quando udiamo la parola o ci capira di pensare ad essa. Una “disposizione” non è qualcosa di reale, ma solo la parte mnestica di una legge mnestica causale.
In una legge come “A, B, C, ... nel passato, insieme a X ora, causa Y ora”, chiameremo A, B, C, ... la causa mnestica, X il fatto o lo stimolo e Y la reazione. Tutti i casi in cui l'esperienza influenza il comportamento sono esempi di causazione mnestica.
Coloro che credono nel parallelismo psico-fisico sostengono che la psicologia può essere teoreticamente interamente libera dalla dipendenza dalla fisiologia o dalla fisica. Cioé a dire, essi credono che ogni evento psichico abbia una causa psichica e un concomitante fisico. Se ci deve essere parallelismo è facile provare tramite la logica matematica che la causazione in materie fisiche e psichiche devono essere dello stesso tipo ed è impossibile che la causazione mnestica esista in psicologia ma non in fisica. Ma se la psicologia deve essere indipendente dalla fisiologia, e la fisiologia può essere ridotta alla fisica, sembrerebbe che la causazione mnestica sia essenziale in psicologia. Altrimenti saremmo spinti a credere che tutta la nostra conoscenza, tutto il nostro bagaglio di immagini e memorie, tutte le nostre abitudini mentali, sono sempre esistenti in qualche forma mentale latente e non sorgono solamente grazie allo stimolo che porta al loro apparire. Si tratta di un'ipotesi decisamente difficile. Mi sembra che se, come questione di metodo piuttosto che metafisica, desideriamo ottenere la maggior indipendenza possibile per la psicologia faremmo meglio ad accettare la causazione mnestica pro tempore e perciò rigettare il parallelismo poiché non vi è un terreno solido per ammettere la causazione mnestica in fisica.
È degno di essere osservato il fatto che la causazione mnestica è ciò che condusse Bergson a negare che vi sia causazione del tutto nella sfera psichica. Egli sottolinea, a ragione, che lo stesso stimolo ripetuto non ha le stesse conseguenze e ne deduce che ciò è contrario alla massima “stessa causa, stesso effetto”. Comunque al fine di ri-stabilire la massima e la possibilità di leggi causali psicologiche è solo necessario rende conto dei fatti passati e includerli nella causa.
La concezione metafisica della causa si sofferma sulla nostra maniera di vedere le leggi causali: vogliamo essere in grado di sentire una connessione tra la causa e l'effetto ed essere in grado di immaginare la causa come “operante”. Ciò ci toglie la volontà di considerare le leggi causali soltanto come uniformità osservate di una sequenza; eppure ciò è tutto ciò che la scienza abbia da offrire. Chiedere perché un tale o tal'altro genere di sequenza si verifica è o chiedere una domanda priva di senso o richiedere qualche più generale genere di sequenza che includa quella in questione. Le più ampie leggi empiriche di una sequenza conosciute in ogni tempo possono essere “spiegate” solo nel senso di essere sussunte dalle successive scoperte sotto leggi ancora più ampie; ma queste leggi più ampie, finché anch'esse non saranno sussunte, rimarrano fatti bruti, basati soltanto sull'osservazione e non su qualche supposta razionalità inerente.
Pertanto non c'è obiezione a priori alla legge causale in cui parte della causa abbia cessato di esistere. Argomentare contro una tale legge sulla base del fatto che ciò che è passato non può operare ora, è introdurre la vecchia nozione metafisica di causa, per la quale la scienza non può trovar posto. La sola ragione che può essere validamente addotta contro la causazione mnestica sarebbe che, in effetti, tutti i fenomeni possono essere spiegati senza di essa. Essi sono spiegati senza di essa con l'”engramma” di Semon o da ogni teoria che consideri il risultato dell'esperienza come modificazioni del cervello e dei nervi. Ma essi non sono spiegati, se non con estrema artificialità, da qualsiasi teoria che consideri gli effetti latenti dell'esperienza come psichici piuttosto che fisici. Coloro i quali desiderano fare della psicologia il più possibile indipendente dalla fisiologia farebbero bene, così mi sembra, ad adottare la causazione mnestica. Da parte mia, comunque, non nutro tale desiderio, e mi cimenterò pertanto nell'esporre le ragioni che secondo me esistono in favore di un punto di vista come quello dell'”engramma”.
Uno dei primi punti da sottolineare è che i fenomeni mnestici si trovano tanto nella fisiologia che nella psicologia. Essi sono stati riscontrati anche nelle piante, come Sir Francis Darwin ha chiarito (cf. Semon, "Die Mneme," 2nd edition, p. 28 n.). L'abitudine è una caratteristica del corpo almeno quanto lo è della mente. Dobbiamo, perciò, ammettere l'intruisione della causazione mnestica, se ammessa, nelle regioni del non-psicologico che dovrebbero invece, sembra, essere soggette solo alla causazione di ordinario tipo fisico. Il fatto è che una gran quantità di ciò che a prima vista distingue la psicologia dalla fisica si scopre essere, all'esame, comune alla psicologia e alla fisiologia; l'intera questione dell'influenza dell'esperienza è un caso calzante. Ora è possibile, naturalmente, sostenere il punto di vista difeso dal professor J. S. Haldane, il quale sostiene che la fisiologia non è teoreticamente riducibile alla fisica e alla chimica [1]. Ma la maggiorparte dei fisiologi, su questo punto, appaiono contro di lui, e noi si deve sicuramente richiedere delle prove molto forti prima di ammettere tale soluzione di continuità tra la materia vivente e quella morta. All'argomento dell'esistenza di fenomeni mnestici in fisiologia si deve pertanto dare un certo peso contro l'ipotesi che la causazione mnestica sia un genere ultimo di causazione.
L'argomento della connessione fra lesioni cerebrali e perdita della memoria non è così forte come sembra, sebbene abbia una sua solidità. Ciò che sappiamo è che la memoria, e i fenomeni mnestici in generale, possono essere disturbati o distrutti da mutamenti nel cervello. Ciò prova certamente che il cervello riveste un ruolo essenziale nel causare la memoria, ma non prova che un certo stato del cervello è di per sé una condizione sufficiente per l'esistenza della memoria. Eppure è quest'ultima cosa a dover essere provata. La teoria dell'engramma, o qualcosa si simile, deve sostenere che, dato un corpo e un cervello nello stato adeguato, un uomo avrà un certo ricordo, senza bisogno di condizioni aggiuntive. Ma ciò che è noto, comunque, è solo che egli non avrà ricordi se il suo corpo e cervello non sono nello stato adeguato. Cioé a dire, lo stato appropriato del corpo e del cervello si può dimostrare essere necessario per la memoria, ma non sufficiente. Quindi per quanto ne sappiamo la memoria può richiedere per la sua causazione un fatto del passato come anche un certo stato attuale del cervello.
Al fine di provare conclusivamente che i fenomeni mnestici sorgono ogniqualvolta siano soddisfatte certe condizioni fisiologiche, dovremmo essere in grado di vedere effettivamente le differenze fra il cervello di un uomo che parla inglese e quello di un uomo che parla francese, tra il cervello di un uomo che ha visto New York e se la ricorda e quello di un uomo che non abbia mai visto quella città. Può essere che arrivi il momento in cui ciò sarà possibile, ma per ora ne siamo ancora lontani. Per ora, per quanto mi concerne, non c'è nessuna buona prova del fatto che ogni differenza tra la conoscenza posseduta da A e quella posseduta da B sia parallela a qualche differenza nei loro cervelli. Possiamo credere che sia così ma se lo facciamo la nostra credenza è basata su analogie e massime scientifiche generali, non sul fondamento dell'osservazione dettagliata. Io stesso sono incline ad adottare la credenza in questione come ipotesi di lavoro e sostenere che l'esperienza passata agisce sul comportamento presente solo attraverso le modifiche alla struttura fisiologica. Ma la ragione non sembra affatto conclusiva, sicché penso che non vada dimenticata l'altra ipotesi, o respinta interamente la possibilità che la causazione mnestica possa essere la spiegazione ultima dei fenomeni mnestici. Dico questo non perché pensi che sia verosimile che la causazione mnestica sia la spiegazione ultima, ma solo perché pernso che sia possibile, e perché è spesso risultato importante per il progresso della scienza ricordare le ipotesi che precedentemente sembravano improbabili.
NOTE ALLA LEZIONE IV
[1] Si veda il suo "The New Physiology and Other Addresses," Griffin, 1919, e anche il simposio, "Are Physical, Biological and Psychological Categories Irreducible?" in "Life and Finite Individuality," edito dalla Aristotelian Society, con una introduzione di H. Wildon Carr, Williams & Norgate, 1918.