FILOSOFI E FILOSOFIE
Mensile di filosofia a cura di Roberto Vescarelli
N°6, X-2006
CONTENUTI:
Dall'opera di Bertrand Russell The Problems of Philosophy:
Cap. IX: IL MONDO DEGLI UNIVERSALI
Cap. X: SULLA CONOSCENZA DEGLI UNIVERSALI
IL MONDO DEGLI UNIVERSALI
Traduzione di Roberto Vescarelli
Alla fine
del precedente capitolo abbiamo visto che quel genere di entità
che sono le relazioni sembrano possedere un essere che differisce in
qualche modo da quello degli oggetti fisici, da quello delle menti e
da quello dei dati sensoriali. Nel presente capitolo considereremo
quale sia la natura di tale genere di essere, e anche quali oggetti
possiedano tale tipo di essere. Inizieremo dalla seconda questione.
Il problema
che ci riguarda è uno di quelli molto antichi, poiché
fu introdotto nella filosofia da Platone. La “teoria delle
idee” di Platone è un tentativo di risolvere questo
notevole problema, e secondo me si tratta di uno dei più
riusciti fra i tentativi sinora fatti. La teoria che sarà
sostenuta in quanto segue è largamente di Platone, con quelle
modifiche che il tempo ha mostrato essere necessarie.
-
Il problema sorse, per Platone, più o meno nei
termini seguenti. Consideriamo ad esempio la nozione di giustizia.
Se ci chiediamo cosa la giustizia sia, è naturale procedere
considerando questo e quest'altro atto giusto, mirando alla scoperta
di ciò che hanno in comune. Tutti gli atti giusti, in qualche
senso, partecipano a una natura comune, che può essere
trovata in ciò che è giusto e in nient'altro. Questa
natura comune, in virtù della quale essi sono tutti giusti,
sarà la giustizia stessa, la cui pura essenza, mescolata con
i fatti della vita ordinaria, produce la molteplicità degli
atti giusti. Cose simili accadono con ogni altra parola che può
essere applicata in comune a fatti, come “bianchezza” ad
esempio. La parola sarà applicabile a un certo numero di cose
particolari perché esse partecipano tutte a una natura o
essenza comune. Questa pura essenza è ciò che Platone
chiama “idea” o “forma”. (Non bisogna
credere che l'“idea” in questo senso esista nelle menti,
sebbene essa possa essere afferrata dalle menti.) L'”idea”
di giustizia non è
identica a nulla che sia giusto: è qualcosa d'altro rispetto
alle cose particolari, qualcosa di cui le cose particolari
partecipano. Non essendo particolare, non può esistere nel
mondo del senso. Perdipiù non è transeunte e mutevole
come le cose del senso: è eternamente se stessa, immutabile e
indistruttibile.
-
Così Platone perviene ad un mondo
sopra-sensibile, più reale del comune mondo del senso,
l'inalterabile mondo delle idee, che solo fornisce al mondo del
senso quel pallido riflesso di realtà che gli appartiene. Il
mondo autenticamente reale, per Platone, è il mondo delle
idee; infatti nonostante si possa provare a dire qualcosaltro degli
oggetti del mondo sensibile, possiamo solo riuscire a dire che essi
partecipano di questa o di quella idea, che, perciò,
costituisce tutto il loro carattere. Pertanto è facile
pervenire a una certa forma di misticismo. Possiamo sperare, con
un'illuminazione mistica, di vedere le idee così come vediamo
gli oggetti dei sensi, e possiamo immaginare che le idee esistano in
cielo. Questi sviluppi mistici sono certo naturali, ma le basi della
teoria sono nella logica, e noi la considereremo come fondata sulla
logica.
-
La parola “idea” ha acquisito, nel corso
del tempo, diversi significati che sono piuttosto fuorvianti se
applicati alle “idee” nel senso di Platone. Pertanto
useremo la parola “universale” al posto della parola
“idea”, al fine di descrivere ciò che Platone
intendeva. L'essenza del genere di entità intese da Platone
era tale da opporsi alle cose particolari date nella sensazione.
Diciamo che qualsiasi cosa sia data nella sensazione, o sia della
stessa natura delle cose date nella sensazione, è un
particolare; viceversa un universale
sarà qualsiasi cosa possa essere condivisa da molti
particolari, e possiede quelle caratteristiche che, come abbiamo
visto, distinguono la giustizia e la bianchezza dagli atti giusti e
dalle cose bianche.
-
Quando esaminiamo il linguaggio comune troviamo che,
generalmente parlando, i nomi propri stanno per particolari, mentre
i sostantivi, gli aggettivi, le preposizioni e i verbi stanno per
universali. I pronomi stanno per particolari, ma sono ambigui: è
solo dal contesto o dalle circostanze che veniamo a sapere per quali
particolari stiano. La parola “ora” sta per un
particolare, cioè il momento presente; ma come i pronomi,
essa sta per un particolare ambiguo, poiché il presente
cambia sempre.
-
Mostreremo che non può essere formato nessun
enunciato se non si utilizzi almeno una parola che denoti un
universale. L'approccio più semplice consisterebbe nel
considerare un enunciato come “questo mi piace [I like this]”.
Ma anche qui la parola “piace [like]” denota un
universale, poiché a me possono piacere altre cose, e ad
altre persone possono piacere delle cose. Così tutte le
verità comportano universali, e tutta la conoscenza
[knowledge of] delle verità comporta la conoscenza diretta
[acquaintance with] degli universali.
-
Visto che quasi tutte le parole del dizionario stanno
per universali, è strano che quasi tutti ad eccezione degli
studenti di filosofia si siano accorti che ci sono entità
come gli universali. Noi per natura non ci soffermiamo, in un
enunciato, su quelle parole che non stanno per particolari; e se
siamo obbligati a prestare attenzione ad una parola che sta per un
universale, noi naturalmente la pensiamo come stante per uno dei
particolari che cadono sotto l'universale. Quando, ad esempio,
udiamo l'enunciato “la testa di Carlo I fu tagliata [Charles
I's head was cut off]” noi naturalmente pensiamo a Carlo I,
alla testa di Carlo I, e all'operazione consistente nel tagliare la
sua testa, che sono tutti
particolari; ma non ci soffermiamo in maniera naturale su ciò
che è significato dalla parola “testa [head]” o
la parola “tagliare [cut]”, che sono degli universali.
Sentiamo che tali parole sono incomplete e non sostanziali; sembrano
richiedere un contesto prima che si possa far qualcosa con esse. In
tal maniera riusciamo a non accorgerci degli universali, fino a
quando lo studio della filosofia ci spinge a prestare loro
attenzione.
-
Anche i filosofi, dobbiamo dire, generalmente
riconoscono solo quegli universali che sono nominati dagli aggettivi
e dai sostantivi, mentre quelli che sono nominati dai verbi e dalle
preposizioni vengono usualmente ignorati. Questa omissione ha avuto
un grande effetto sulla filosofia; non è esagerato affermare
che la maggiorparte della metafisica, a partire da Spinoza, è
stata largamente determinata da essa. Il modo in cui ciò è
potuto accadere è più o meno questo: generalmente
parlando, gli aggettivi e i nomi comuni esprimono qualità o
proprietà di singole cose, mentre le preposizioni e i verbi
tendono a esprimere relazioni fra due o più cose. Pertanto la
dimenticanza delle preposizioni e dei verbi condusse alla credenza
secondo cui ogni proposizione può essere considerata come
l'attribuzione di una proprietà ad una singola cosa,
piuttosto che come esprimente una relazione tra due o più
cose. Così si suppose che, infine, non potevano esistere cose
come le relazioni fra gli oggetti. Pertanto potrebbe esserci
un'unica entità nell'universo, o, se ci sono molte cose, esse
non possono interagire in nessun modo, poiché ogni
interazione sarebbe una relazione, e le relazioni sono impossibili.
-
La prima di queste posizioni, sostenuta da Spinoza e ai
giorni nostri da Bradley e molti altri filosofi, è chiamato
monismo; la seconda, sostenuta
da Leibniz ma non molto comune ai giorni nostri, è chiamato
monadismo, perché
ognuna degli oggetti isolati è detto monade.
Entrambe queste opposte filosofie, nonostante il loro interesse,
derivano, secondo me, da una indebita attenzione a un genere di
universali, cioé il genere rappresentato da aggettivi e
sostantivi piuttosto che da verbi e preposizioni.
-
È un dato di fatto che a uno che sia ansioso di
negare del tutto che vi siano gli universali, noi non possiamo a
rigore provare che ci sono entità come le qualità,
i.e. gli universali rappresentati da aggettivi e sostantivi, mentre
possiamo provare che ci devono essere relazioni,
i.e. il genere di universali usualmente rappresentato dai verbi e
dalle preposizioni. Prendiamo come esempio l'universale bianchezza.
Se crediamo che vi sia un tale universale, diremo che le cose sono
bianche poiché possiedono la qualità della bianchezza.
Questo modo di vedere le cose, ad ogni modo, fu fieramente
osteggiato da Berkeley e Hume, che furono seguiti in ciò dai
successivi empiristi. La forma che prese la loro opposizione fu il
negare che ci fossero cose come le “idee astratte”.
Quando vogliamo pensare alla bianchezza, essi dicono, formiamo
l'immagine di qualche particolare cosa bianca, e ragioniamo circa
questo particolare avendo cura di non dedurre niente che lo riguardi
che non possa essere mostrato essere ugualmente vero di ogni altra
cosa bianca. Come resoconto dei nostri processi mentali attuali, ciò
è senza dubbio largamente vero. In geometria, ad esempio,
quando vogliamo dimostrare qualcosa a proposito di tutti i triangoli
disegnamo un triangolo particolare e ragioniamo su di esso, avendo
cura di non usare qualche caratteristica che esso non condivide con
gli altri triangoli. Il principiante al fine di evitare errori
spesso trova utile disegnare molti triangoli quanto più
possibile dissimili fra loro al fine di assicurarsi che il suo
ragionamento sia applicabile a tutti. Ma una difficoltà
emerge non appena ci chiediamo come sappiamo che una cosa è
bianca o è un triangolo. Se desideriamo evitare gli
universali bianchezza e triangolarità, dovremo scegliere
qualche particolare macchia di bianco o qualche triangolo
particolare, e dire che niente è bianco o un triangolo che
non abbia il giusto grado di somiglianza con il particolare scelto.
Ma allora la somiglianza richiesta sarà un universale. Poiché
ci sono molte cose bianche, la somiglianza deve valere tra molte
paia di particolari cose bianche; e ciò è la
caratteristica dell'universale. Sarebbe inutile sostenere che vi è
una somiglianza differente per ogni paio, perché allora
dovremmo dire che queste somiglianze si somigliano fra loro, e così
siamo costretti infine ad ammettere la somiglianza come un
universale. La relazione di somiglianza, pertanto, deve essere un
autentico universale. Costretti ad ammettere questo universale,
troviamo che non è più degno di valore l'inventare
difficoltà e teorie implausibili per evitare l'ammissione di
universali come la bianchezza e la triangolarità.
-
Berkeley e Hume fallirono nel percepire questa
confutazione del loro rifiuto delle “idee astratte”
perché, come i loro avversari, essi pensavano solo alle
qualità, e ignoravano
del tutto le relazioni come
universali. Abbiamo pertanto qui un altro aspetto rispetto al quale
i razionalisti sembrano essere stati nel giusto, a differenza degli
empiristi, sebbene, a causa della dimenticanza o della negazione
delle relazioni, le deduzioni operate dai razionalisti fossero più
adatte ad essere fraintese di quelle degli empiristi.
-
Avendo mostrato che ci devono essere entità come
gli universali, il prossimo punto da provare è che esse non
sono meramente mentali. Con ciò si intende che qualsiasi
essere che gli appartenga è indipendente dal suo essere
pensato o in ogni caso appreso [apprehended] da qualche mente.
Abbiamo già toccato il soggetto alla fine del precedente
capitolo, ma ora dobbiamo considerare con più ampiezza il
genere di essere che appartiene agli universali.
-
Consideriamo la proposizione “Edimburgo è
a nord di Londra”. Qui abbiamo una relazione tra due località,
e sembra chiaro che la relazione sussista indipendentemente dalla
conoscenza che ne possiamo avere. Quando veniamo a sapere che
Edinburgo è a nord di Londra, veniamo a sapere qualcosa che
ha a che vedere solo con Edinburgo e Londra: non causiamo la verità
della proposizione venendola a sapere, al contrario noi apprendiamo
meramente un fatto che era già lì prima che lo
conoscessimo. La parte della superficie terrestre dove sta Edinburgo
sarebbe a nord della parte dove si trova Londra anche se non ci
fossero esseri umani a conoscere il nord e il sud, e anche se non ci
fossero menti nell'universo. Naturalmente ciò è negato
da molti filosofi, o per le ragioni di Berkeley o per quelle di
Kant. Ma noi abbiamo già considerato quelle ragioni, e deciso
che sono inadeguate. Ora possiamo pertanto assumere che niente di
mentale è presupposto nel fatto che Edinburgo sia a nord di
Londra. Ma questo fatto implica la relazione “a nord di”,
che è un'universale; e sarebbe inpossibile per l'intero fatto
non implicare qualcosa di mentale se la relazione “a nord di”,
che è una parte costituente del fatto, implicasse qualcosa di
mentale. Pertanto dobbiamo ammettere che la relazione, come i
termini relati, non dipendono dal pensiero, ma appartengono a un
mondo indipendente che il pensiero conosce [apprehends] ma non crea.
-
Comunque questa conclusione incontra la seguente
difficoltà: la relazione “a nord di” non sembra
esistere nello stesso senso
in cui esistono Edinburgo e Londra. Se chiediamo “dove e
quando questa relazione esiste?”, la risposta deve essere “in
nessun luogo e in nessun momento”. Non c'è spazio o
tempo dove possiamo trovare la realzione “a nord di”.
Non esiste ad Edinburgo più che a Londra, poiché essa
relaziona i due ed è neutra fra essi. Non possiamo neanche
dire che esiste in qualche tempo particolare. Ora, tutto ciò
che è appreso dai sensi o tramite l'introspezione esiste in
qualche tempo particolare. Invece la relazione “a nord di”
è radicalmente differente da tali cose. Non è nello
spazio o nel tempo, non è materiale o mentale; eppure è
qualcosa.
È largamente la natura decisamente peculiare del
genere di essere che appartiene agli universali che conduce molte
persone a supporre che essi siano in realtà mentali. Possiamo
pensare a un universale, e il
nostro pensare allora esiste in un senso perfettamente ordinario,
come ogni altro atto mentale. Supponiamo, ad esempio, di star
pensando alla bianchezza. Allora in un certo senso
si può dire che la bianchezza è “nelle nostre
menti”. Qui abbiamo la stessa ambiguità che notammo nel
discutere Berkeley nel capitolo IV. In senso stretto, non è la
bianchezza che è nelle nostre menti, ma l'atto di pensare la
bianchezza. La connessa ambiguità nella parola “idea”,
che notammo allora, causa confusione anche qui. In un senso di questa
parola, ossia il senso in cui denota l'oggetto
di un atto di pensiero, la bianchezza è una “idea”.
Se non ci guardandiamo da quella ambiguità, potremmo iniziare
a pensare la bianchezza come una “idea” nell'altro senso,
i.e. un atto di pensiero; e così arriveremmo a pensare che la
bianchezza sia mentale. Ma nel fare ciò, la priveremmo della
qualità essenziale dell'universalità. L'atto di
pensiero di un uomo è necessariamente una cosa diversa da
quello di un altro uomo; l'atto di pensiero di un uomo in un certo
momento è necessariamente una cosa differente dallo stesso
atto di pensiero in un altro momento. Così se la bianchezza
fosse il pensiero come opposto al suo oggetto, due uomini differenti
non potrebbero pensarla, e nessun uomo potrebbe pensarla due volte.
Ciò che molti diversi pensieri della bianchezza hanno in
comune è il loro oggetto,
e questo oggetto è differente da essi. Pertanto gli universali
non sono pensieri, sebbene quando siano conosciuti essi siano oggetti
di pensiero.
-
Potremmo trovare conveniente parlare di cose esistenti
[existing] solo quando sono nel tempo, ossia, quando possiamo
indicare [point] qualche tempo in cui esse esistono (non escludendo
la possibilità della loro esistenza in ogni tempo). Così
i pensieri e i sentimenti, le menti e gli oggetti fisici esistono
[exist]. Ma gli universali non esistono in questo senso; dovremmo
dire che sussistono [subsist]
o che hanno l'essere
[have being], dove “essere” [being] si oppone a
“esistenza” [existence] a motivo dell'essere senza
tempo. Il mondo degli universali, pertanto, può essere
descritto come il mondo dell'essere. Il mondo dell'essere è
immutabile, rigido, esatto, la delizia dei matematici, dei logici,
dei costruttori di sistemi metafisici, e di tutti quelli che amano
la perfezione più che la vita. Il mondo dell'esistenza è
fugace, vago, senza chiari confini, senza un'organizzazione
evidente, ma contiene tutti i pensieri e i sentimenti, tutti i dati
sensoriali, e tutti gli oggetti fisici, tutto ciò che può
essere buono o dannoso, ogni cosa che faccia qualche differenza
nella vita e nel mondo. A seconda del nostro temperamento,
preferiamo la contemplazione di uno piuttosto che dell'altro. Quello
che non preferiamo ci sembrerà probabilmente una pallida
ombra di quello che preferiamo, e difficilmente degno di essere
riguardato come reale in qualche senso. Ma la verità è
che entrambi hanno lo stesso peso sulla nostra attenzione
imparziale, entrambi sono reali, ed entrambi sono importanti per i
metafisici. Pertanto non appena si siano distinti i due mondi
diventa necessario considerare le loro relazioni.
-
Ma prima di tutto dobbiamo esaminare la nostra
conoscenza degli universali. Queste considerazioni ci occuperanno
nel seguente capitolo, dove troveremo la soluzione al problema della
conoscenza a priori, dal
quale fummo precedentemente portati a considerare gli universali.
-
SULLA CONOSCENZA DEGLI UNIVERSALI
Traduzione di Roberto Vescarelli
In
relazione alla conoscenza umana nel tempo gli universali, come i
particolari, possono essere divisi in quelli conosciuti direttamente
[by acquaintance], quelli conosciuti solo per descrizione [by
description] e quelli non conosciuti direttamente o per descrizione.
Consideriamo in primo
luogo la conoscenza diretta degli universali. È una cosa ovvia
che noi si abbia conoscenza diretta di universali come il bianco, il
rosso, il nero, il dolce, l'amaro, il sonoro, il duro, etc., i.e. con
qualità che sono esemplificate nei dati sensoriali. Quando
vediamo una pezza bianca, abbiamo conoscenza diretta, in un primo
momento, della particolare pezza; ma vedendo molte pezze bianche, con
facilità apprendiamo ad astrarre la bianchezza che tutte esse
hanno in comune, e nell'imparare a fare questo stiamo apprendento ad
avere conoscenza diretta della bianchezza. Un processo simile ci
permette di conoscere in maniera diretta ogni universale dello stesso
tipo. Universali di questo genere possono essere chiamati “qualità
sensibili”. Possono essere apprese con un minor sforzo di
astrazione rispetto alle altre, e appaiono meno distanti dai
particolari che non altri universali.
Veniamo alle relazioni.
Le relazioni più facili da apprendere sono quelle che valgono
tra le differenti parti di un singolo dato sensoriale complesso. Ad
esempio, io posso vedere con uno sguardo l'interezza della pagina su
cui sto scrivendo; così l'intera pagina è inclusa in un
dato sensoriale. Ma io percepisco che qualche parte della pagina è
a sinistra di altre parti, e che qualche parte è sopra qualche
altra. Il processo di astrazione in questo caso sembra procedere come
segue: io vedo in successione un certo numero di dati sensoriali nei
quali una parte è a sinistra di un'altra. Percepisco, come nel
caso delle differenti pezze bianche, che tutti questi dati sensoriali
hanno qualcosa in comune, e tramite l'astrazione trovo che ciò
che essi hanno in comune è una certa relazione fra le loro
parti, cioé la relazione che chiamo “essere a sinistra
di”. In questo modo ho conoscenza diretta della relazione
universale.
-
In maniera simile si diventa consapevoli della relazione di prima e
dopo nel tempo. Si supponga di sentire uno scampanio di campane:
quando ha suonato l'ultima campana, posso certamente ritenere
l'intero scampanio nella mia mente, e posso percepire che i primi
scampanii vengono prima dell'ultimo. Così nella memoria
percepisco che ciò che sto ricordando viene prima del tempo
presente. Da entrambe queste fonti posso astrarre la relazione
universale di prima e poi, proprio come avevo astratto la relazione
universale “essere a sinistra di”. Così le
relazioni temporali, come quelle spaziali, sono fra le cose di cui
abbiamo conoscenza diretta.
-
Un'altra relazione della quale abbiamo conoscenza diretta più
o meno nello stesso modo è la somiglianza. Se vedo
contemporaneamente due tonalità di verde, posso vedere che si
somigliano; se nello stesso momento vedo una tonalità di
rosso, posso vedere che i due verdi si somigliano di più tra
loro che con il rosso. In questo modo vengo ad avere conoscenza
diretta dell'universale somiglianza
[resemblance, similarity].
-
Tra gli universali, come tra i particolari, di queste relazioni
possiamo essere immediatamente consci. Abbiamo appena visto che
possiamo percepire che la somiglianza tra due tonalità di
verde è più grande che la somiglianza tra una tonalità
di rosso e una di verde. Qui abbiamo a che fare con una relazione,
cioé “più grande di”, tra due relazioni.
La nostra conoscenza di tali relazioni, sebbene richieda più
potere di astrazione di quello che è richiesto per percepire
le qualità dei dati sensibili, appare essere ugualmente
immediata, e (almeno in qualche caso) ugualmente indubitabile. Così
vi è conoscenza immediata tanto degli universali quanto dei
dati del senso.
-
Ritornando ora al problema della conoscenza a priori,
che lasciammo irrisolto quando iniziammo ad occuparci degli
universali, ci troviamo nella posizione di poterlo ora affrontare in
una maniera più soddisfacente. Ritorniamo alla proposizione
“due più due fa quattro”. È abbastanza
ovvio, visto quanto è stato detto, che questa proposizione
istituisce una relazione tra l'universale “due” e
l'universale “quattro”. Ciò suggerisce una
proposizione che ora ci cimentiamo a dimostrare: cioè che
tutta la conoscenza a
priori riguarda esclusivamente le relazioni fra
universali. Questa proposizione
è di grande importanza, e va nella direzione di una soluzione
delle nostre precedenti difficoltà concernenti la conoscenza
a priori.
-
Il solo caso in cui si può mostrare, ad un primo sguardo, che
la nostra proposizione è falsa, è il caso in cui una
proposizione a priori
asserisce che tutti i membri di una classe di particolari appartiene
a qualche altra classe, o (che è lo stesso) che tutti i
particolari aventi una certa proprietà ne hanno anche
un'altra. In questo caso possiamo trattare con i particolari che
hanno la proprietà piuttosto che con la proprietà
stessa. La proposizione “due più due fa quattro”
è realmente il caso indicato, poiché essa può
essere asserita nella forma “ogni due e ogni altro due sono un
quattro”, o “ogni collezione formata da due due è
una collezione formata da quattro elementi”. Se possiamo
dimostrare che tali enunciati hanno a che fare realmente solo con
universali, la nostra proposizione può essere considerata
provata.
-
Un modo per scoprire ciò che una proposizione riguarda è
chiedere a noi stessi quali parole dobbiamo comprendere – in
altre parole, di quali oggetti dobbiamo avere conoscenza diretta –
al fine di vedere cosa la proposizione significhi. Non appena si sia
visto cosa la proposizione significhi, anche se non sappiamo ancora
se essa sia vera o falsa, è evidente che dobbiamo avere
conoscenza diretta con qualsiasi cosa di cui si occupi realmente la
proposizione. Applicando questo test, risulta evidente che molte
proposizioni che possono sembrare riguardare i particolari sono in
realtà riguardanti solo gli universali. Nel caso particolare
di “due più due fa quattro”, anche quando lo
interpretiamo come significante “ogni collezione formata da
due due è una collezione formata da un quattro”, è
chiaro che possiamo comprendere
la proposizione, i.e. possiamo vedere ciò che asserisce, non
appena si sappia cosa significano “collezione”, “due”
e “quattro”. Non è necessario conoscere tutte le
coppie che vi sono nel mondo: se fosse necessario, ovviamente noi
non potremmo mai comprendere la proposizione, poiché le
coppie hanno numero infinito e pertanto non possono essere
conosciute tutte. Così sebbene il nostro enunciato generale
non appena noi si sappia che sussistono tali coppie
particolari, implichi
enunciati circa particolari coppie, di per sé esso non
permette di asserire e non implica che vi siano tali coppie
particolari, e pertanto che si possa formulare un qualsiasi
enunciato concernente coppie attuali particolari. L'enunciato è
stato fatto circa “coppia”, l'universale, e non circa
questa o quella coppia.
-
Così l'enunciato “due più due fa quattro”
riguarda esclusivamente degli universali, e perciò può
essere conosciuto da ciascuno di coloro che abbiano conoscenza
diretta degli universali coinvolti e possa percepire la relazione
sussistente fra loro che è asserita dall'enunciato. Bisogna
prendere come un fatto, scoperto riflettendo sopra la nostra
conoscenza, che talvolta abbiamo il potere di percepire tali
relazioni fra gli universali e pertanto talvolta conosciamo delle
proposizioni generali a priori
come quelle dell'aritmetica e della logica. La cosa che sembrò
misteriosa, quando considerammo precedentemente tale conoscenza, fu
che essa sembra anticipare e controllare l'esperienza. Ora, ad ogni
modo, possiamo vedere che ciò è stato un errore.
Nessun fatto
concernente qualcosa capace di essere esperito può essere
conosciuto indipendentemente dall'esperienza. Noi sappiamo a
priori che due cose con altre
due cose fanno quattro cose, ma non
sappiamo a priori che
se Brown and Jones sono due, e Robinson e Smith sono due, allora
Brown, Jones, Robinson e Smith sono quattro. La ragione è che
la proposizione non può essere affatto compresa finché
non sappiamo che ci sono quelle persone che sono Brown, Jones,
Robinson e Smith, e ciò lo possiamo sapere solo per
esperienza. Quindi, sebbene la nostra proposizione generale sia a
priori, tutte le sue
applicazioni a particolari attuali implicano l'esperienza e perciò
contengono un elemento empirico. In questo modo ciò che
sembrava misterioso nella nostra conoscenza a priori
si è mostrato essere fondato su un errore.
-
Servirà a chiarire il punto il confronto fra un nostro
genuino giudizio a priori e
una generalizzazione empirica, come “tutti gli uomini sono
mortali”. Qui come prima possiamo comprendere ciò
che la proposizione significa non appena abbiamo compreso gli
universali coinvolti, ossia uomo e
mortale. È
ovviamente non necessario avere una conoscenza diretta individuale
dell'intera razza umana al fine di comprendere cosa la proposizione
significa. Così la differenza tra una proposizione generale a
priori e una generalizzazione
empirica non risiede nel significato della
proposizione; risiede nella natura della sua evidenza.
Nel caso empirico, l'evidenza consiste negli esempi particolari.
Crediamo che tutti gli uomini siano mortali perché sappiamo
che ci sono innumerevoli esempi di uomini morti, e nessun esempio di
uomo vissuto oltre una certa età. Non ci crediamo perché
vediamo una connessione tra l'universale uomo
e l'universale mortale.
È vero che se la fisiologia potesse provare, assumendo le
leggi generali che governano i corpi viventi, che nessun organismo
vivente può vivere per sempre, ciò fornirebbe una
connessione tra uomo e
mortalità che ci
metterebbe in grado di asserire la nostra proposizione senza
appellarci alla speciale evidenza data da uomini
morti. Ma ciò significa solo che la nostra generalizzazione è
stata sussunta sotto una generalizzazione più ampia, per la
quale l'evidenza è ancora dello stesso tipo, sebbene più
estesa. Il progresso della scienza ha costantemente prodotto tali
sussunzioni, dando pertanto una larga base induttiva per le
generalizzazioni scientifiche. Ma sebbene ciò fornisca una
elevato grado di
certezza, esso non ne fornisce un genere
diverso: la base ultima rimane induttiva, i.e. derivata da esempi, e
non si tratta di una connessione a priori
fra universali come nella logica e nell'aritmetica.
-
Si devono fare due considerazioni di carattere opposto riguardo alle
proposizioni generali a priori.
La prima è che, se sono conosciuti molti esempi particolari,
si può arrivare alla nostra proposizione generale
inizialmente per induzione, e la connessione degli universali può
essere percepita solo successivamente. Ad esempio, è noto che
se tracciamo le perpendicolari ai lati di un triangolo dagli angoli
opposti, tutte le perpendicolari si incontrano in un punto. Sarebbe
sicuramente possibile essere dapprima condotti a questa proposizione
dal fatto di tracciare perpendicolari in molti casi, e trovare che
esse si incontrano in un punto; questa esperienza può
portarci a cercare la prova generale e a trovarla. Tali casi sono
comuni nell'esperienza di tutti i matematici.
-
L'altro punto è più interessante, e di maggior
interesse filosofico. È un fatto che talvolta possiamo
conoscere una proposizione generale quando non conosciamo neanche un
singolo esempio di essa. Prendiamo il caso seguente: sappiamo che
ogni coppia di numeri può essere moltiplicata, dando un terzo
valore detto prodotto.
Sappiamo che tutte le paia di interi il cui prodotto sia meno di 100
sono state attualmente moltiplicate, e il valore del prodotto è
stato registrato nella tavola delle moltiplicazioni. Ma noi sappiamo
anche che il numero di interi è infinito, e che solo un
numero finito di paia di interi sono state o saranno pensate dagli
esseri umani. Per cui ci sono paia di interi che non sono mai state
e non saranno mai pensate da esseri umani, e tutte esse sono
costituite da interi il cui prodotto è superiore a 100.
Pertanto perveniamo alla proposizione: “tutti i prodotti di
due interi che non sono mai stati né mai saranno pensati da
qualche essere umano sono superiori a 100.” Questa è
una proposizione generale la cui verità è innegabile
eppure, in questo caso, non possiamo mai fornirne un esempio; perché
ogni due numeri che possiamo pensare sono esclusi dai termini della
proposizione.
-
Questa possibilità di conoscere proposizioni generali di cui
non sia dato alcun esempio, è spesso negata, perché
non ci si rende conto che la conoscenza di tali proposizioni
richiede solo una conoscenza delle relazioni degli universali, e non
richiede alcuna conoscenza degli esempi degli universali in
questione. Eppure la conoscenza di tali proposizioni generali è
vitale per una gran parte di ciò che generalmente è
ammesso essere conoscenza. Ad esempio, abbiamo visto nei primi
capitoli, che la conoscenza degli oggetti fisici, come opposti ai
dati sensoriali, è ottenuta solo tramite inferenza e che essi
non sono cose di cui abbiamo conoscenza diretta. Perciò non
possiamo mai sapere qualche proposizione della forma “questo è
un oggetto fisico”, dove “questo” è
qualcosa di immediatamente conosciuto. Ne segue che tutta la nostra
conoscenza inerente gli oggetti fisici è tale che non può
essere fornito alcun esempio attuale. Possiamo fornire esempi dei
dati sensoriali associati, ma non possiamo fornire esempi di oggetti
fisici attuali. Pertanto la nostra conoscenza degli oggetti fisici
dipende interamente dalla possibilità di conoscenza generale
in quei casi in cui nessun esempio può essere fornito. Lo
stesso si dica della nostra conoscenza delle menti delle altre
persone, o di ogni altra classe di cose delle quali nessun esempio
ci è noto in maniera diretta.
-
Ora possiamo tentare una panoramica sulle fonti della nostra
conoscenza, come ci sono apparse nel corso dell'analisi. Bisogna
innanzitutto distinguere la conoscenza delle cose e la conoscenza
delle verità. Per ognuna vi sono due generi, uno immediato e
uno derivato. La nostra conoscenza immediata delle cose, che
chiamiamo conoscenza diretta [acquaintance],
è di due tipi a seconda che le cose conosciute siano
particolari o universali. Tra i particolari, abbiamo conoscenza
diretta [acquaintance] con i dati sensoriali e (probabilmente) con
noi stessi. Tra gli universali, sembra che non vi sia un principio
in base al quale decidere cosa può essere conosciuto in
maniera diretta, ma è chiaro che fra quelli che possono
essere conosciuti in tale modo vi sono le qualità sensibili,
le relazioni di spazio e tempo, la somiglianza, e certi universali
logici astratti. La nostra conoscenza derivata delle cose, che
chiameremo conoscenza per descrizione [description]
implica sempre sia la conoscenza diretta di qualcosa che la
conoscenza di verità. La nostra conoscenza immediata delle
verità può
essere chiamata conoscenza intuitiva,
e le verità così conosciute possono essere chiamate
verità auto-evidenti.
Tra queste verità sono incluse quelle che asseriscono
solamente ciò che è dato nel senso, e anche certi
principi astratti della logica e dell'aritmetica, e (sebbene con
meno certezza) qualche proposizione etica. La nostra conoscenza
derivata delle verità
consiste di tutto ciò che possiamo dedurre dalle verità
auto-evidenti tramite l'uso di principi di deduzione auto-evidenti.
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Se quanto sopra è corretto tutta la nostra conoscenza delle
verità dipende dalla conoscenza intuitiva. Pertanto diventa
importante considerare la natura e l'ambito della conoscenza
intuitiva, nello stesso modo in cui in precedenza abbiamo
considerato la natura e l'ambito della conoscenza diretta. Ma la
conoscenza di verità fa sorgere un altro problema, che non
sorge in relazione alla conoscenza di cose, ossia il problema
dell'errore. Qualche nosta
credenza si è rivelata erronea, e pertanto diventa necessario
considerare come possiamo distinguere la conoscenza dall'errore.
Questo problema non sorge in relazione alla conoscenza diretta
poiché, qualsiasi sia l'oggetto della conoscenza diretta,
anche nei sogni e allucinazioni, non c'è errore fino a quando
non andiamo oltre l'oggetto immediato. Così i problemi
connessi con la conoscenza di verità sono più
difficili di quelli connessi con la conoscenza di cose. Fra i
problemi connessi con la conoscenza di verità, esaminiamo per
primo la natura e l'ambito dei nostri giudizi intuitivi.
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