FILOSOFI E FILOSOFIE
Mensile di filosofia a cura di Roberto Vescarelli
N°4, VI-2006
CONTENUTI:
CARTESIO E LE PASSIONI DELL'ANIMA
STORIA DELLA MALINCONIA PATOLOGICA
DIALOGO SULL'ESSERE
CARTESIO E LE PASSIONI DELL'ANIMA
di Roberto Vescarelli
"Le passioni dell'anima" di Descartes furono pubblicate nel 1649 ad Amsterdam.
In questo articolo presentiamo il contenuto di quell'opera e tentiamo di rifletterci sopra.
I filosofi si sono occupati del problemi sollevati dalla nozione di mente fin dagli inizi della disciplina. Uno delle prime utili distinzioni fatte dai filosofi, a proposito dell'anima, fu la distinzione fra azione dell'anima e passione dell'anima.
L'essere agente o pazienente non è qualcosa che spetti in primo luogo alle anime poiché anche i corpi inanimati possono essere cause di cambiamento o modificare il loro stato a motivo di qualche causa di cambiamento che agisce su di essi.
Fin da principio il concetto di passione, ossia di essere paziente, è stato utilizzato in filosofia per descrivere sia la sensazione che l'emozione, che sono, appunto due stati in cui l'anima deve subire passivamente ciò che proviene dall'esterno del corpo o dal corpo stesso.
Attualmente allo studio di questi temi contribuiscono diverse discipline scientifiche (discipline neurologiche, psicologiche, loro storie e storia della filosofia) e in secondo luogo la filosofia.
Il libro di Descartes è una via di mezzo fra noi, che ci attendiamo a breve la comprensione scientifica dell'agire e pensare umano, e il modo di procedere pre-scientifico; per la precisione potrebbe essere caratterizzato come esempio di un modo di pensare il problema della mente che sta smettendo di essere filosofico e sta iniziando a diventare scientifico.
Nel lavoro, naturalmente, si trovano dei risultati che possono ancora oggi essere accettati come scientifici: nella seconda parte dell'opera, ad es., si trova la teoria della divisione delle emozioni in primarie (poche e diffuse in maniera intraspecifica) e secondarie (costituite dalla combinazione di emozioni primarie, come l'odio=rabbia+disgusto); questa teoria è ancora sostenuti dagli etologi che studiano le emozioni animali e le loro espressioni.
L'opera di cui ci occupiamo è divisa in sole tre parti (ma gli esperti consigliano di leggerla insieme al carteggio con la principessa Elisabetta (le "Lettere sulla morale"), dove molti temi vengono ripresi e di alcuni punti si danno spiegazioni più generali o che inquadrano l'argomento nell'ambito della restante filosofia cartesiana).
Ogni parte è divisa in articoli.
La prima parte è costituita dai primi cinquanta.
Inizialmente si parla delle passioni in generale (1-6), della loro relazione con il corpo (7-16), della loro relazione con l'anima (17-29) e della loro relazione con l'unione di anima e corpo (30-50).
In una lettera alla principessa Elisabetta viene chiarita questa suddivisione: riguardo al corpo abbiamo come sola idea inseparabile quella di estensione, riquardo all'anima abbiamo quella di pensiero, e riguardo al corpo e all'anima presi assieme abbiamo la sola idea inseparabile di unione fra due sostanze. Così la trattazione nella prima parte segue quest'ordine di pensieri.
Nell'articolo 1 Cartesio si lamenta dell'insufficienza della scienza tramandata dagli antichi a proposito delle passioni. Evidentemente gli sarebbe piaciuto vivere in un epoca più vicina alla nostra, in cui partire da una massa di dati scientifici maggiori a proposito della mente rispetto a quelli dai quali poteva partire lui.
Ad ogni modo sempre nello stesso articolo ci viene spiegato che "l'azione e la passione sono sempre una medesima cosa con due nomi, secondo che la si riferisce ... al soggetto a cui capita ... [o] a quello che lo determina".
Così, sembra suggerirci Cartesio, possiamo pensare le passioni dell'anima come azioni del corpo, senza perdere in profondità nella nostra analisi.
Ci viene detto che "Per conoscere le passioni dell'anima è necessario distinguere le sue funzioni da quelle del corpo", e ciò potrà essere fatto nel seguente modo: "Tutto quello che ci apparità potersi verificare in corpi completamente inanimati, dovrà essere attribuito soltanto al nostro corpo [mentre ciò che non appartiene in nessun modo a un corpo] deve essere attribuito alla nostra anima."
Così sembra che non vi sia posto nella filosofia di Cartesio per qualcosa di intermedio tra anima e corpo, qualcosa che abbia una natura comune a quella dell'anima e del corpo. Infatti fra i due lati dell'uomo vi è una frattura difficilmente conciliabile nella filosofia del Nostro. "Il calore e il movimento delle membra procedono dal corpo; i pensieri dall'anima" (art. 4).
Ognuna delle due nature procede interagendo con l'altra, ma restandone contemporaneamente completamente distinta: per il corpo varranno le leggi della fisica e sarà pura macchina, mentre per la mente varranno le leggi del pensiero e sarà puro spirito. Il problema della loro interazione sarà risolto in una maniera che fece molto discutere e di cui parleremo in seguito, perché è contenuta in quest'opera.
Per ora basti sapere che il corpo è solo una macchina (come sono per Descartes macchine tutti gli animali terrestri non umani, privi del pensiero e quindi dell'anima) e che causa della morte è un "guasto" della macchina corporea: "Quando si muore, l'anima se ne va proprio perché quel calore cessa, e gli organi che servono a muovere i corpi si corrompono". (artt. 5,6)
Dall'articolo 7 all'articolo 16, per spiegare le passioni dal punto di vista del corpo, si tratta di neurologia.
Nonostante il fatto che le idee di Cartesio sono rozze e sbagliate, per quanto concerne la spiegazione neurologica del movimento e dell'azione del corpo sull'anima, esse sono scientifiche, e fanno parte della storia della medicina, che le ha falsificate non poi così tanto tempo fa. Per andare oltre la neurologia cartesiana si sarebbero dovute avere più conoscenze biochimiche e relative alla trasmissione dei segnali elettrici.
Nell'art. 7 ci viene spiegato che i NERVI sono "piccoli filamenti o canaletti, provenienti tutti dal cervello, e pieni, come il cervello, di una certa aria o vento sottilissimo, a cui si dà il nome di SPIRITI ANIMALI."
L'ignoranza dell'anatomia portò Descartes e molti dei suoi contemporanei a credere che tutti i nervi originassero nel cervello.
L'osservare la loro somiglianza a dei canali li portò invece a credere nell'esistenza di una "sostanza psichica" trasmessa dai nervi stessi, che spiegasse il movimento delle membra; tale sostanza fu identificata con gli spiriti animali, intesi come parti materiali (non bisogna lasciarsi fuorviare dalla
parola "spirito") e sottilissime del sangue che con il loro movimento, causato o dal corpo o dall'anima stessa, potessero spiegare l'interazione fra mente e corpo (in primo luogo il movimento e in secondo luogo la percezione e l'emozione).
Esemplare, a questo proposito, ciò che viene detto nell'art. 11 ("Come avvengono i movimenti dei muscoli):
"La sola causa di tutti i movimenti delle membra è che alcuni muscoli si accorciano, mentre i loro opposti si allungano [...] e la sola causa che fa accorciare un muscolo invece del suo opposto, è che giungono ad esso dal cervello, un po' più spiriti che all'altro". E' così chiarita la visione meccanicistica del movimento umano.
Poco prima (art. 10) Cartesio aveva spiegato come gli spiriti animali, che sono la causa materiale di tutte le affezioni dell'anima, sono prodotti nel cervello:
il sangue che esce dal cuore per la grande arteria si dirige verso il cervello "ma senza potervi entrare del tutto, perché vi sono solo dei passaggi molto stretti; perciò penetrano soltanto le parti più agitate e sottili [ cioè gli spiriti animali che] non sono che corpi, e non hanno altra proprietà tranne
quella di essere molto piccoli".
Se qualche contemporaneo di Cartesio avesse scoperto i globuli bianchi o quelli rossi, Cartesio avrebbe esclamato "ecco gli spiriti animali!".
Dopo essersi occupato delle passioni in generale (artt. 1-6) e del corpo (7-16), ci si occupa delle passioni dal punto di vista dell'anima o, come diceva Cartesio, della Res Cogitans, la Sostanza Pensante in quanto distinta dall'altra sostanza esistente, quella corporea o Res Extensa.
Innanzitutto vengono distinte le azioni dell'anima dalle passioni dell'anima:
1) AZIONI
le AZIONI dell'anima sono tutti gli atti volontari che vengono direttamente dall'anima e dipendono da essa sola. Ne troviamo di quattro tipi:
1a) Azioni dell'a. che terminano nell'anima stessa "Come quando vogliamo amare Dio o rivolgere il nostro pensiero a qualcosa di non materiale"
1b) Azioni dell'a. che terminano nel corpo: "Dal solo fatto che vogliamo camminare, segue che le nostre gambe si muovano"
1c) Immaginazioni (in un primo senso del termine): come quando immaginiamo un palazzo incantato o una chimera (ma lo facciamo in maniera attiva, non subendo le immagini più elementari ma unendole attivamente per formare immagini più complesse)
1d) Pensieri
2) PASSIONI
le PASSIONI dell'anima in senso lato o PERCEZIONI sono
2a) causate dall'anima stessa
oppure
2b) causate dal corpo
Per quanto riguarda 2a) Cartesio sostiene che "Benché riguardo all'anima nostra sia un'azione il volere qualche cosa, si può dire che in essa è una passione accorgersi di ciò che si vuole".
Per quanto riguarda 2b), le passioni dell'a. causate dal corpo si dividono in quattro specie:
2b1) riferite ad oggetti esterni, come nella percezione propriamente detta.
2b2) riferite al nostro corpo, come nel caso della fame, della sete o del
dolore
2b3) immaginazioni (in un secondo senso): in esse non interviene la volontà; es. i sogni quando sembrano reali o le fantasticherie fatte da svegli e subite come qualcosa di passivo dall'anima.
A questo proposito si vede come Cartesio, pur non possedendo il concetto di INCONSCIO, sia andato molto vicino all'idea che la parte cosciente della mente possa subire passivamente l'influenza di qualcosa che proviene da un'altra parte della stessa mente.
Tuttavia, voglio ricordartelo, Cartesio avrebbe ritenuto il fondamentale concetto di volontà inconscia come un concetto contraddittorio.
2b4) riferite solo all'anima, come la gioia o la collera; sono le passioni in senso stretto
Riepilogando:
Le passioni sono percezioni che si riferiscono all'anima in particolare e che sono causate, mantenute, rafforzate, da qualche movimento degli spiriti.
Cartesio ci tiene anche a chiarire che le passioni non hanno la caratteristica di alcune idee di essere "chiare e distinte"; esse passioni, viceversa, a motivo del loro essere espressione dell'unione di anima e corpo, sono "confuse e oscure".
Cartesio dice proprio così: "Le passioni rientrano in quelle percezioni che lo stretto legame fra anima e corpo rende confuse e oscure", come se la nozione di unione fra mente e materia apparisse al nostro ben più problematica della sola nozione di mente o della sola nozione di materia. E in effetti così è ...
Gli artt. 30-50 trattano delle passioni dell'anima in relazione all'unione di anima e corpo.
Cartesio si domanda, come fecero anche gli antichi, se l'anima sia diffusa in tutto il corpo o se abbia una sede in un organo specifico (nella nostra cultura occidentale sono stati proposti il fegato, il cuore e il cervello).
La sua risposta di Cartesio può suonare strana in relazione al fatto che la sua dottrina comprende la teoria secondo cui l'anima è immateriale e quindi priva di estensione. Come può una tale sostanza "interagire con un" o anche sensatamente "essere in un" corpo?
Senza dare risposta a questi problemi Cartesio afferma che nonostante "l'anima è unita strettamente a tutte le parti del corpo", "C'è nel cervello una piccola ghiandola in cui l'anima esercita le sue funzioni più specificamente che non nelle altre parti": la GHIANDOLA PINEALE (posta alla base del cervello) è tale che "i suoi più lievi movimenti possono mutare molto il corso degli spiriti, mentre, inversamente, i minimi mutamenti nel corso degli spiriti possono portare grandi cambiamenti nei movimenti di questa ghiandola".
La scelta della ghiandola pineale come sede privilegiata dell'anima è dovuta al fatto che essa sarebbe l'unica parte non doppia del cervello e che "abbiamo d'una cosa, in un certo momento, un solo e semplice pensiero".
Nell'art. 47 si dice: "La piccola ghiandola posta al centro del cervello può essere mossa, da un lato dall'anima, dall'altro dagli spiriti animali ... succede spesso che le due spinte siano contrastanti e che la più forte impedisca l'effetto dell'altra".
Per quanto concerne le azioni dell'anima (art. 41) "tutta l'azione dell'anima consiste in questo che, per il solo fatto di volere qualcosa, essa fa muovere la piccola ghiandola, a cui è strettamente legata, nel modo richiesto per produrre l'effetto connesso con la volontà".
Per quanto concerne invece le passioni dell'anima, si sottolinea che finché dura l'emozione prodotta "nel cuore, e perciò in tutto il sangue e negli spiriti ... le passioni restano presenti al nostro pensiero, come gli sono presenti gli oggetti sensibili fintanto che agiscono sui nostri organi di senso".
Tuttavia non è impossibile per l'uomo domare le passioni, e proprio con questo tema stoico (art. 50) si chiude la prima parte de Le passioni dell'anima:
"Non c'è anima tanto debole che non possa, ben guidata, acquistare un assoluto dominio sulle sue passioni". L'abitudine e l'esercizio possono insegnare a separare certi movimenti della ghiandola pineale prodotti dagli spiriti animali dalle passioni corrispondenti, come quando, dice Descartes, si addestra un cane a non scappare se sente lo sparo del cacciatore.
La seconda parte consta degli articoli 51-148 e tratta dei seguenti argomenti:
cause e funzioni delle passioni (51-52)
enumarazione delle passioni (53-68)
le sei passioni fondamentali (69-95)
fisiologia delle passioni (96-136)
sull'uso delle passioni (137-148)
Quanto alle cause delle passioni Cartesio sostiene che sono gli oggetti dei sensi che provocano "l'agitazione, dovuta agli spiriti, della piccola ghiangola posta in mezzo al cervello" (così non si danno cause interne delle passioni e non si parla neanche della variabilità soggettiva nell'esperienza
delle emozioni); quanto alla loro funzione, essa "consiste nel disporre l'anima a voler ciò che la natura indica come utile" (ad esempio la paura dispone l'anima a fuggire ciò che gli è nocivo).
Le passioni composte sono molte, ma esistono solo sei passioni primitive:
MERAVIGLIA
AMORE-ODIO
DESIDERIO
GIOIA-TRISTEZZA
Riassumiamo quanto sostenuto da Descartes a proposito di queste emozioni.
La meraviglia è "Una sorpresa improvvisa dell'anima, per cui essa si volge a considerare con attenzione gli oggetti che le sembrano rari ed eccezionali".
Prima gli spiriti producono l'impressione dell'oggetto raro, e quindi degno d'esser molto considerato; successivamente essi insistono con gran forza sulla zona del cervello dove si trova questa impressione, per rafforzarla e mantenerla.
Quanto alla fisiologia di questa emozione, Cartesio sostiene che "Gli oggetti di senso, quando sono nuovi, toccano il cervello in certe parti in cui non è abituato ad esser toccato, e che l'efficacia del movimento che vi eccitano è più forte, perché queste parti sono più tenere o meno solide di quelle
indurite da un'agitazione più frequente".
Nello STUPORE gli spiriti animali si rivolgono tutti verso il luogo del cervello dove è l'oggetto ammirato e non passano più ai muscoli. "Così il corpo resta immobile come una statua".
Le passioni non sempre sono utili: la meraviglia è utile "per farci apprendere e conservare nella memoria le cose che prima ignoravamo"; mentre è dannosa se ci si stupisce "scorgendo cose poco o punto meritevoli d'esser considerate".
"L'amore è un'emozione dell'anima cagionata dagli spiriti, che la incita ad unirsi volontariamente agli oggetti che sembrano convenirle". Viceversa "L'odio è un'emozione cusata dagli spiriti che incita l'anima a desiderare d'essere separata dagli oggetti che si presentano ad essa come nocivi".
Viene da credere che sia la ragione a dipingere come convenienti o sconvenienti i diversi oggetti, e che poi la materia (tramite il moto degli spiriti animali) faccia il resto.
Di amore ve ne sono di diverse specie:
"affezione" è quell'amore per gli oggetti che stimiamo meno di noi (come un fiore o un uccello), "amicizia" quell'amore che proviamo per qualcuno che stimiamo pari a noi, e infine la "devozione" è l'amore verso qualcosa che stimiamo più di noi (come la divinità o il principe).
Di odio non vi sono altrettante specie.
Il DESIDERIO è "un'agitazione dell'anima causata dagli spiriti che la dispongono a volere per l'avvenire le cose che essa si rappresenta come convenienti". Esso non ha un opposto, in quanto l'avversione è un desiderio che tende a sfuggire un male.
Cartesio considera anche il desiderio sessuale, con argomentazioni che rimandano a Platone:
"La natura, insieme alla differenza del sesso, che ha messo negli uomini come negli animali privi di ragione, ha posto in noi anche certe impressioni nel cervello per cui, a un'età e a un tempo determinati, ci si considera come manchevoli, e come se si fosse solo la metà di un tutto di cui una persona dell'altro sesso deve costituire l'altra metà [...] E pur vedendo molte persone dell'altro sesso, non per questo ne desideriamo parecchie in una volta [...] ma quando in una di quelle si nota qualcosa che ce la fa piacere più delle altre [...] l'anima è spinta a provare per quella sola tutta l'inclinazione che la natura le dà verso il bene considerato il più grande che si possa possedere. [...] L'inclinazione che ne nasce è un desiderio chiamato amore, più comunemente che non la passione d'amore descritta più sopra".
La GIOIA è il godimento del bene che le impressioni del cervello le rappresentano come proprio, mentre la TRISTEZZA è "Il disagio che l'anima riceve dal male, o dal difetto che le impressioni del cervello le rappresentano come suo proprio"
In questa parte Cartesio tratta della fisiologia delle passioni (spiega attraverso il movimento del sangue e degli spiriti) e anche dei segni esteriori delle passioni. Ma la parte più interessante della sezione è costituita dagli articoli finali, così suddivisi:
Sull'uso delle passioni primitive in quanto si riferiscono al corpo (137-138)
Sul loro uso in quanto appartengono all'anima (139-142)
In quanto si riferiscono al desiderio (143-146)
Emozioni interiori dell'anima e virtù (147-148)
La funzione naturale delle passioni è "spingere l'anima a consentire e a contribuire alle azioni che possono servire alla conservazione del corpo".
Nonostante ciò possono essere considerate difettose in quanto "molte cose nocive al corpo non cagionano alcuna tristezza iniziale, e danno persino gioia; mentre altre sono utili, pur causando all'inizio disagio".
Perciò dobbiamo "servirci dell'esperienza e della ragione per distinguere il bene dal male ... sì da non rivolgerci a nulla con trasporto eccessivo".
Nell'opera torna spesso il tema antico secondo cui sarebbe un bene la moderazione delle passioni.
Amore e odio, in quanto appartengono all'anima derivano dalla conoscenza, e "quando siffatta conoscenza è vera, e cioè quando le cose che ci porta ad amare sono veramente buone, e quelle che ci porta ad odiare veramente cattive, l'amore è incomparabilmente preferibile all'odio".
Anche il desiderio "quando procede da una conoscenza vera, non può essere cattivo, purché non sia eccessivo e la conoscenza lo regoli".
Quando le passioni non sono considerate solo per sè, ma anche per l'azione che producono, esse "eccitano il desiderio, per mezzo del quale regoliamo i nostri costumi". Infatti esse "non possono determinarci a nessuna azione se non per mezzo del desiderio che eccitano".
Ma siccome "il desiderio è sempre buono quando segue una vera conoscenza", bisognerà "avere special cura nel regolare tale desiderio" distinguendo le cose che dipendono completamente da noi (cioé dal libero arbitrio) da quelle che non ne dipendono. Solo le prime sono desiderabili.
Quanto alle cose che non dipendono affatto da noi bisogna "rifiutare totalmente la credenza volgare in una FORTUNA fuori di noi, secondo il cui capriccio le cose accadrebbero o non accadrebbero, e renderci conto che tutto è guidato dalla PROVVIDENZA divina, il cui decreto eterno è a tal segno
infallibile e immutabile che, eccettuate le cose poste da quel medesimo decreto sotto il nostro LIBERO ARBITRIO, nulla dobbiamo pensar che ci accada, che non sia necessario e quasi fatale".
Mentre le passioni sono sempre subordinate a qualche movimento degli spiriti, le EMOZIONI INTERIORI DELL'ANIMA, da cui dipendono "il nostro bene e il nostro male", sono "eccitate nell'anima esclusivamente dall'anima stessa".
Come quando il marito piange la moglie morta "che tuttavia gli dispiacerebbe di veder resuscitare". In questa situazione la tristezza è una passione dell'anima causata "dall'apparato funerario e dalla mancanza di una persona alla cui conversazione era abituato", cose che producono le lacrime; mentre l'intima gioia che egli prova è causata soltanto dall'anima.
Infine vi sono alcune riflessioni sulla virtù che rimandano alla riflessione
ellenistica:
contro il potere della passioni l'esercizio della VIRTU' è il rimedio sovrano.
Infatti "se l'anima avrà sempre di che contentarsi nel suo intimo, per certo nessun turbamento d'origine esteriore potrà nuocerle".
"Chiunque abbia vissuto in modo che la sua coscienza non possa rimproverargli di aver mancato di fare le cose da lui giudicate migliori (ed è questo che io chiamo seguire la virtù), prova una soddisfazione così efficace per la sua felicità, che gli sforzi più violenti delle passioni non avranno mai sufficiente potere da turbare la tranquillità dell'animo suo".
Nell'ultima parte si propone una classificazione di tutte le passioni a partire dalle sei principali.
Negli ultimi due articoli (211-212) si parla di un "rimedio generale contro le passioni". Bisogna partire dal considerare che "per loro natura son tutte buone, e che ci resta solo da evitarne il cattivo uso e l'eccesso"Inoltre "quanto si presenta all'immaginazione tende ad ingannare l'anima e a farle apparire molto puà forti del vero le ragioni che servono a persuaderla dell'oggetto della sua passione".
Pertanto:
a) "Quando la passione persuade di cose la cui esecuzione ammette un certo indugio, bisogna prender tempo a riflettere ... fino a che il tempo e il riposo non abbiano completamente calmato l'azione del sangue"
b) "Quando infine le passioni incitano ad azioni che richiedono una decisione immadiata, la volontà deve volgersi soprattutto a considerare e a seguire le ragioni contrarie a quelle presentate dalla passione, anche se appaiono meno forti"
STORIA DELLA MALINCONIA PATOLOGICA
di Roberto Vescarelli
Il concetto di "malinconia", "melancolia", "depressione", "lipemania" sembra
essere il più antico concetto psichiatrico. Prima della nascita della
medicina occidentale, "I medici egiziani avevano già riconosciuto e collocato
la depressione fra i fenomeni morbosi" [5, p. 25] e "Nella Bibbia (Samuele,
1) viene drammaticamente riferita la depressione di Re Saul, culminante nel
suo suicidio" [2, p. 425].
Secondo l'opinione di O. Koerner (1929) citata in [2, p. 425] "la prima
descrizione della depressione nelle culture indogermaniche è la melanconia di
Bellerofonte nell'Iliade":
Venne in odio agli dei Bellerofonte:
Solo e consunto da tristezza errava
Pel campo Aleio l'infelice, e l'orme
De' viventi fuggia (Iliade, VI).
Ippocrate (nato a Cos, isola del mar Egeo lungo le coste occidentali della
penisola anatolica, nel 460 a.C., è considerato il fondatore della medicina
occidentale; già Platone ed Aristotele lo ritennero il fondatore della
medicina come scienza; fu attivo ad Atene e morì a Larissa, in Tessaglia, nel
377 a.C.; non tutte le opere contenute nel cosiddetto corpus hippocraticum
furono scritte da lui) fu il primo a far progredire le conoscenze
neurologiche e psichiatriche dell'Occidente interpretando un disturbo
neurologico in chiave naturalistica (sostenendo che l'epilessia sia una
malattia dell'encefalo; cfr. Il male sacro) ed elencando quattro patologie
psichiatriche: melanconia (cfr. Della natura dell'uomo), mania, isteria e
paranoia. Di esse indicò pure le possibili cause, e.g. l'eccesso di bile nera
(o "atrabile" termine derivante dal gr. colé, bile, e melan, nero) nella
melanconia. Negli Aforismi, in particolare, viene riconosciuto il carattere
patologico della depressione, contrapposta alla normale tristezza: "Se il
timore e la disperazione durano a lungo, ciò significa malinconia" (VI, 23).
Nei Problemata, per lungo tempo erroneamente attribuiti ad Aristotele,
l'autore pone una domanda che si dice abbia ispirato il pittore Durer,
diciannove secoli più tardi, nell'esecuzione della sua famosa opera La
melancolia-I (1513-1514). [Pseudo]-Aristotele chiede: "Perché tutti coloro
che eccellono nella filosofia, nella politica, nella poesia o nelle arti sono
decisamene melanconici, ed alcuni di loro in modo tale da essere veramente
colpiti dalle manifestazioni morbose che derivano dalla bile
nera?" [pseudo]-Aristotele presume pertanto che molte persone creative (nel
testo vengono citati anche Socrate e Platone) non si limitino ad essere
melanconiche, ma lo siano in grado morboso. L'accostamento genialità-follia
non mancò di esercitare un forte influsso sulla cultura occidentale a partire
dal Rinascimento.
L'interpretazione soprannaturalistica della malattia mentale propria
dell'antichità prima di Ippocrate dominò la medicina religiosa medioevale
fondendosi con la classica teoria della bile nera. La malattia mentale fece
tutt'uno con la possessione demoniaca e si diffuse la pratica dell'esorcismo
al fine di persuadere "i demoni a uscire dal corpo di coloro che si
comportavano in modo strano" [4, p.133]. "Tutto sommato, in un mondo
sostanzialmente disattento alla salute somatica, la medicina non elabora a
nessun livello, neppure in tema di malinconia, contributi veramente
originali" [12].
Se l'antichità interpretò la malinconia come un disturbo dell'umore
comportante alterazioni del sonno e dell'appetito, il Medioevo fu più attento
al rapporto, teorizzato da Ildegarda di Bingen durante il XII secolo, fra
melanconia e colpa. Ildegarda, nata in Renania nel 1098 da nobile famiglia,
divenne monaca a otto anni e, in seguito, badessa; a partire dai tre anni
ebbe delle visioni mistiche; un sinodo riunitosi a Magonza nel 1147-48
riconobbe in esse, che ella chiamava visiones, "la mano di Dio" e il dono
della profezia; fu autrice di numerose opere teologiche e filosofiche.
"Secondo Ildegarda quando Adamo commette il peccato originale sedotto dal
Maligno si leva nel suo organismo la bile nera responsabile della malinconia.
Da allora l'uomo può rivivere la tristezza e la disperazione esperite nel
momento dell'ancestrale, originaria colpa alimentare: il morso della mela
proibita. La caduta segna così l'origine della malinconia e della
malattia" [12].
Nel Regimen Sanitatis Salernitanum viene descritta la malattia prodotta
dall'eccesso di bile nera: si tratta di una tristezza accompagnata da timori
continui, taciturnità e insonnia, che tuttavia favorirebbe il lavoro
intellettuale. Ai pazienti era proibito consumare carne salata o di lepre e,
guardacaso, la mela.
L'atteggiamento dei medici non migliorò durante l'Umanesimo e il Rinascimento:
nel 1486 i domenicani J. Sprenger e H. Krämer pubblicarono il celebre Malleus
maleficarum ("Il martello delle streghe"), un'opera che con le sue 19
edizioni costituì il punto di riferimento teorico per l'interpretazione dei
sintomi psichiatrici quali sataniche manifestazioni di stregoneria e fu
utilizzato dall'Inquisizione per giustificare le torture e le persecuzioni
inflitte ai malati mentali [cfr. anche 20 alla voce psichiatria].
Il neoplatonico Marsilio Ficino (1433 - 1499) sviluppò l'antico parallelo fra
melanconia e genialità già presente nei Problemi pseudoaristotelici: "l'uomo
di genio, riflessivo e attento alle proprie esperienze interiori, è
distaccato dal mondo come il malinconico: nella riflessione profonda l'animo
deve infatti ritrarsi dall'esterno all'interno, come se da una circonferenza
si portasse verso il centro, posizione tipica della terra, l'elemento che
corrisponde all'umore melanconico. La malinconia del resto spinge a
"investigare il centro di tutte le cose", ma stimolando a pensieri elevati, e
ciò rimanda a Saturno, il pianeta più alto nei cieli (De le tre vite, lib. I,
cap. IV), che alla malinconia sovraintende" [12].
Durante l'Umanesimo rinacque l'interesse di artisti, medici e filosofi nei
confronti della malattia mentale e, in particolare, la "melancolia". Michele
Savonarola, nipote del celebre predicatore e autore di un De cura languoris
animi ex morbo venientis, sostenne che "nella cura delle sofferenze
dell'animo le parole possono avere efficacia quanto i rimedi materiali nella
cura del corpo". Paracelso (1493 -1541), mago e filosofo teorizzatore di un
principio spirituale animatore della Natura articolato in molti "arcani" e
della corrispondenza, di sapore squisitamente neoplatonico, fra macrocosmo e
microcosmo, sostenne che teologia, filosofia, astronomia e alchimia sono le
quattro colonne della medicina. "Nel corso dei suoi viaggi si occupa
soprattutto di disturbi mentali quali il delirio, l'isteria e l'epilessia,
rifiutando sia le spiegazioni di carattere sacro, sia quelle legate alla
stregoneria, e insiste sulla necessità di definirne le cause naturali,
separando nettamente la psicologia dalla teologia" [9, p.13]. Fracastoro
(1478 - 1553), oppositore dell'occultismo e dell'astrologia, compie
osservazioni rilevantissime circa il rallentamento psicomotorio, i disturbi
del sonno, il rischio di suicidio e l'epidemiologia dei disturbi depressivi
(osservò l'alta incidenza di questo tipo di disturbi fra le donne e gli
anziani).
A partire dal XVII secolo in tutta Europa vennero create numerose case di
internamento che scompariranno soltanto all'inizio del XIX secolo [4, pg
101]: "Non c'è da stupirsi che le case di internamento abbiano l'aspetto di
prigioni, e che spesso le due istituzioni siano state perfino confuse, tanto
che i folli venivano abbastanza indifferentemente ripartiti nelle une o nelle
altre" [ib. Pg 160]. "Ai pazienti del XVIII secolo venivano somministrati
trattamenti-shock: li si faceva girare vorticosamente su una sedia fino a far
loro sanguinare le orecchie o li immergeva in laghi ghiacciati facendoli
cadere attraverso delle botole" [10].
Fra il XVIII e il XIX secolo la medicina compì i primi passi necessari alla
comprensione scientifica delle patologie mentali ponendosi i problemi del
substrato anatomopatologico, dell'eziopatogenesi e della loro classificazione
nosologica.
Alla fine del XVIII secolo fu coniato dal medico scozzese William Cullen il
termine nevrosi per indicare ogni affezione "sine materia", i.e. senza una
base organica presunta. Cullen divise i disturbi in febbri, chachessie e
nevrosi. Quando, verso la fine del secolo XIX, gli psicoanalisti e i medici
iniziarono a parlare di "psicosi" per riferirsi a patologie psichiatriche
gravi e invalidanti di cui si ipotizzava un sostrato anatomopatologico, si
riservò il termine coniato da Cullen a quelle patologie che, a differenza
delle psicosi, non comportavano alterazioni dell'esame di realtà. Il termine
sembra dovere la sua diffusione nel linguaggio comune all'essere stato
adottato dagli psicoanalisti. La psicanalisi freudiana distinse infatti le
malattie della mente in nevrosi, psiconevrosi e psicosi, e le prime in
nevrosi ossessiva, fobica, isterica e nevrastenia. Quest'ultimo termine,
usato spesso come sinonimo di "esaurimento nervoso", fu coniato dal neurologo
americano George M. Beard (1839-83); alla fine del secolo scorso la
nevrastenia era considerata, come ricorda Freud in La morale sessuale
"civile" e il nervosismo moderno (1908) come una malattia prettamente
moderna; tale fu, e.g., l'opinione di L. Binswanger (Die pathologie und
therapie der neurasthenie, Jena, 1896) . Attualmente ciò che ai tempi di
Freud veniva detto "nevrosi" è diagnosticato come disturbo d'ansia
generalizzata, disturbo da attacchi di panico, disturbo ossessivo compulsivo
o agorafobia.
Il termine psicosi è presente nella letteratura psichiatrica di lingua tedesca
fin da prima del 1850; con esso ci si riferiva in origine a qualsiasi
patologia psichiatrica, ossia lo si usava con il significato generico e
indifferenziato di "follia", "mania" e "malattia mentale". Oggi lo si adopera
per raggruppare patologie gravi, intense e disintegrative che coinvolgono
totalmente la persona e in cui l'esame della realtà è alterato. Tali
patologie sono molto differenti fra loro (come le depressioni e le
schizofrenie). Da un punto di vista nosologico il primo grande passo compiuto
dalla psichiatria (si iniziò ad usare questo termine, che etimologicamente
deriva dai termini greci per "anima" e "cura", a partire dalla metà del
secolo XIX) fu dovuto all'opera di V. Chiarughi (1759-1820) e P. Pinel.
Chiarughi scrisse il primo trattato italiano di psichiatria, intitolato Della
pazzia in genere et in ispecie (1793), nel quale divise le psicopatologie in
mania, melanconia, demenza e idiozia (questa classificazione nosografica
coincide con quella di Pinel, 1801). Dal 1805, in qualità di direttore del
frenotrofio Sanbonifazio di Firenze, svolse un corso universitario
interamente dedicato alla psichiatria. Come Pinel, anche Chiarugi si distinse
per il trattamento umano che riservò ai folli; ritenendo che la pazzia fosse
espressione di una disfunzione dell'encefalo, entrambi mirarono ad equiparare
il trattamento dei pazienti psichiatrici a quello degli altri malati,
tentando di eliminare torture e maltrattamenti dai loro ospedali. Con
l'inizio del XIX secolo la psichiatria assunse una fisionomia via via più
specifica, e ciò rese molto pressante il problema della distinzione e
classificazione delle psicopatologie. Il medico francese J. Esquirol
introdusse nel 1832 la distinzione fra pazzi e deficienti mentali: i primi
partono dalla normalità e approdano all'anormalità, i secondi presentano i
tratti dell'insufficienza mentale dalla nascita o dalla prima infanzia.
Alla fine del secolo XIX i lavori di grandi scienziati come Charchot (che
trattava con l'ipnosi le pazienti isteriche della Salpêtriére, l'ospedale
psichiatrico di Parigi), Kraepelin, (che per primo distinse la schizofrenia,
da lui denominata "dementia praecox", dalla psicosi maniaco-depressiva) e
Freud (che in quel periodo iniziò ad elaborare il sistema della
psicoanalisi), contribuirono grandemente alla comprensione dei disturbi della
mente. Durante la seconda metà del secolo molti psichiatri aderirono alla
cosiddetta "ipotesi della psicosi unica" formulata dal medico tedesco medico
tedesco Wihelm Griesinger (autore di "Patologie e terapia della mente",
1845), secondo la quale se unico è l'organo (il cervello), unica sarà anche
la sua alterazione funzionale (la psicosi). La psichiatria di fine Ottocento
fu organicista e descrittivista. Venne accettato il presupposto che le
malattie mentali siano sempre e comunque determinate da lesioni o alterazioni
del cervello. In questo periodo si iniziò ad utilizzare il termine
"neuropsichiatria". A Kraepelin si deve l'individuazione della dementia
precox (l'attuale schizofrenia) con esito in deterioramento, e la sua chiara
distinzione dalla psicosi maniaco-depressiva, con andamento fasico (Kraepelin
non comprendeva nella malattia i casi di insorgenza dopo i quarant'anni).
[1] G. Fossi, F. Pallanti, Manuale di psichiatria, Milano, Cea, 1994
[2] Silvano Arieti, Jules Bemporad, La depressione grave e lieve,
Feltrinelli,1981.
[3a] DSM-III-R
[3b] DSM-IV
[4] Foucault, Michel, Storia della follia nell'età classica, BUR, 1976.
[5] E liberaci dal male oscuro, a cura di Serena Zoli (intervista allo
psichiatra Giovanni Cassano), Longanesi, Milano, 1996 (XIII edizione).
[6] Murray, Michel T., Vincere la depressione, Red 1988 [Ia ed. 1994].
[7] A. Salvo, Depressione e sentimenti, Mondadori, 1994.
[8] F. Mondella, Lo spazio del corpo, lo spazio della mente, Episteme, 1995.
[9] AAVV, Atlante di Psicologia, Demetra, 1999.
[10] D. Hales, R. Hales, La salute della mente, Longanesi, 1998.
[11] D. Papolos, J. Papolos, Sconfiggere la depressione, Longanesi, 1997.
[12] Bonuzzi, Luciano Angoscia e malinconia: un capitolo della storia umana,
in LE SCIENZE, Quaderni, n° 61, IX-1991 (precedentemente apparso in "Le
Scienze" n. 275, luglio 1991).
[13] Blakemore, Colin, I meccanismi della mente, Editori riuniti, 1981.
[14] http://www.mhsource.com
[15] Palazzoli, Cirillo, Selvini, Sorrentino, I giochi psicotici nella
famiglia, Raffaello Cortina Editore, 1988
[16] Il significato della disperazione, a cura di Willard Gaylin, Astrolabio,
1973
[17] Plutchik, Robert, Psicologia e biologia delle emozioni, Manuali di
Psicologia Psichiatria Psicoterapia, Bollati Boringhieri, 1994
[20] Enciclopedia Garzanti di Filosofia, Garzanti, 1991
DIALOGO SULL'ESSERE
di Roberto Vescarelli
A: ieri mi sono divertito parafrasando con gli strumenti della logica contemporanea alcune tesi di Parmenide l'eleate, e visto che a te, come filosofo, piace discutere intorno all'Essere, ho pensato di parlartene.
B: avanti allora, avrai, suppongo, molto da insegnarmi sull'Essere servendoti degli strumenti della logica ...
A: prima di tutto ti devo annoiare con alcune questioni di grammatica. Ho utilizzato un linguaggio logico molto semplice i cui enunciati sono di questo tipo:
E!t
significa che il termine individuale t (una variabile o un nome proprio) esiste, o meglio, ha esistenza individuale.
B: così
E! Babbo Natale
asserisce che Babbo Natale esiste
Ma ci sono enunciati più complicati nel linguaggio che hai utilizzato per analizzare le tesi parmenidee?
A: Beh, c'è la possibilità di utilizzare il simbolo dell'uguaglianza; simboli per i quantificatori e simboli per i connettivi logici.
Ad esempio uno degli enunciati che consideriamo validi è
E!t se e solo se t = t
e quindi
E!t se e solo se Esiste un x tale che x = t
B: infatti è vero che le cose che non esistono non sono identiche a se stesse, mentre quelle identiche a se stesse sicuramente esistono.
A: Sì, e se nel nostro linguaggio elementare introduciamo il nome proprio "a" per indicare l'Essere di Parmenide (o l'Uno o The Being ...) le tesi centrali della filosofia parmenidea sarebbero esprimibili con le seguenti tesi
1) E!a e per ogni x (E!x implica (x=a))
Esiste un solo essere dotato di vera esistenza
o anche
2) Esiste un x (E! x e per ogni altro y, se (y è diverso da x) allora non-E!y)
cioé: Vi è l'Uno e null'altro oltre a ciò che gli è identico ha esistenza
B: Ma la logica che stiamo usando evidentemente richiede che il dominio di discorso sia costituito da un solo individuo, dotato della proprietà di essere identico a se stesso e quindi di esistere.
A: Mi sembra che sia la filosofia stessa di Parmenide che ci invita a lavorare con un universo costituito esclusivamente dall'Essere.
B: ed esso sarà sferico immutabile e imperituro ...
A: Certo, e in questo contesto, nel contesto dell'universo costituito dall'Uno, valgono anche i seguenti enunciati:
3) Per ogni x (E!x se e solo se (x=a))
Esistere significa essere identico all'Uno
4) non esiste un x tale che (E!x e x è diverso da a)
Nessun oggetto diverso dall'Essere esiste
Bene, cosa te ne pare delle mie divertenti parafrasi?
B: non mi dicono cose molto attuali sul problema dell'essere. Ascolta invece cosa si trova in Leila Haaparanta, "Frege's doctrine of being" (Acta Phil. Fennica, vol 39, 1985). Si distinguono quattro diversi significati che il verbo essere può avere nel linguaggio naturale. La distinzione risale al lavoro del grande logico G. Frege.
1
In un primo senso di "è", esso serve per esprimere l'identità tra due oggetti, come in "Espero è Fosforo"
A: Come possiamo analizzare logicamente questa prima accezione del termine?
B:Aiutandoci con alcuni simboli della matematica potremmo sostenere che tutti gli enunciati in questione hanno la forma logica "a=b".
Possiamo analizzare questo senso di "è" sostituendo il suo simbolo con il simbolo di uguaglianza. Ciò è grandioso, ma non sembra rendere del tutto quello che succede quando si pronuncia un enunciato come "Espero è Fosforo" ... Questo genere di enunciati ha creato tutta una serie di dibattiti filosofici (sopratutto nell'ambito della filosofia del linguaggio). Uno dei problemi principali è ?in che maniera a=a differisce da a=b??.
A: non ne parliamo ora, vai avanti.
2
B:
"E'" può essere usato nella predicazione come nel caso di "Platone è un filosofo"
In questo caso stiamo attribuendo una proprietà ("essere un filosofo") ad un oggetto ("Platone") (non c'entra più l'identità fra oggetti). Facendo questo asseriamo che la denotazione del nome dell'oggetto appartiene all'insieme che è denotazione del predicato.
A: Così possiamo analizzare questo senso di "è" introducendo operatori per l'appartenenza di un elemento a una classe e relativi simboli. Analogamente si può analizzare il senso degli enunciati di questo tipo sostenendo che esso sia della forma P(a).
B: in entrambi i casi otterremo le parafrasi desiderate, salvo poi dover correlare fra loro due diversi linguaggi con leggi di traduzione del tipo P(a) se e solo se "a appartiene all'insieme denotato da P".
3
Ad ogni modo il senso più filosofico di "è" è quello relativo all'esistenza, quando "è" è usato per esprimere l'esistenza di oggetti o di insiemi di oggetti.
Es: Dio esiste; Ci sono esseri umani.
Possiamo avere due distinte parafrasi logiche di ciò che è detto con gli enunciati in questione:
usando il quantificatore esistenziale e il simbolo dell'uguaglianza. Infatti affermando che Dio esiste si afferma che esiste qualcosa che è identico a Dio: entrambi gli identici esistono. Infatti ogni cosa che esiste ha la proprietà di essere identica a se stessa. E per il principio di Leibniz, due identici hanno esattamente le stesse proprietà, e quindi anche quella di esistere o meno.
Pertanto la parafrasi logica del primo esempio sarebbe
Esiste un x tale che x=Dio & x è
oppure usando il quantificatore esistenziale e il simbolo per la predicazione.
Infatti in un certo senso con un giudizio come "Esistono esseri umani", si sta affermando che la classe che è denotazione del predicato "uomo" non è vuota, e quindi che esiste un x tale che un certo predicato (essere un uomo) gli appartiene.
4
Infine "è" può essere usato per esprimere inclusione fra classi o equivalentemente implicazioni fra due enunciati.
Es: Ogni cavallo è un quadrupede
Prima parafrasi:
la classe dei cavalli è un sottoinsieme della classe dei quadrupedi
Seconda parafrasi
Essere un cavallo implica essere un quadrupede
A: e si può dimostrare che queste due parafrasi sono equivalenti ...
B: così credo.
A: ma fammi completare il nostro discorso sull'essere con qualche osservazione sulla presenza nel linguaggio di termini che stanno per cose che non esistono (come "Pegaso") o di cui non tutti condividono l'esistenza (come "Dio" o "Omero")
B: So che i filosofi medievali si posero delle domande interessanti al proposito:
cosa significa attribuire una proprietà ad un oggetto che non esiste?
cosa significa negare una proprietà ad un oggetto inesistente?
gli oggetti inesistenti sono identici a se stessi?
A: Conosco le loro interessanti risposte:
gli enunciati che attribuiscono una proprietà a oggetti inesistenti sono falsi. "Pegaso ha le ali" sarebbe falso perché Pegaso non esiste. Invece negare un attributo a qualcosa che non esiste è dire il vero, poiché ciò che non esiste non ha attributi. Pertanto "Pegaso non ha le ali" è vero. Così , per la stessa ragione i medievali avrebbero ritenuto che l'identità non si predica con verità degli oggetti inesistenti, poiché "essere identico" è un attributo positivo ... ma sarebbe vero l'enunciato "gli oggetti inesistenti non sono identici a se stessi".
Bene, vorrei discutere questi problemi dal punto di vista della logica classica e delle logiche libere.
Inizieremo introducendo in un linguaggio del primo ordine il predicato di esistenza, per far vedere come, in presenza nel linguaggio di termini non denotanti, si riescono a dimostrare delle contraddizioni
Ecco il ragionamento [A prende carta e penna]:
esso si basa su una definizione e tre premesse
DEFINIZIONE
Definiamo x=x come "Esiste un y tale che (y=x)" oppure, equivalentemente, con
l'espressione "E!x".
SPIEGAZIONE DELLA DEFINIZIONE
Osserviamo anzitutto che
assioma 1) "per ogni x, se x=x allora x=x".
Grazie alla regola di inferenza logica che permette di inferire dall'enunciato A contenente y libera l'enunciato "esiste un z tale che A[y/z]" (indico con A[y/z] l'enunciato ottenuto da A sostituendo tutte le occorrenze di y in A con il segno z). Così sapendo che x è maggiore di 7 si sa anche anche che "esiste un y tale che y è maggiore di 7".
Bene, applicando la regola di generalizzazione esistenziale al conseguente di Assioma 1), otteniamo
teorema 2) "per ogni x esiste un y tale che (se x=x, allora x=y)
da cui per modus ponens (MP) con l'assioma
"per ogni x, x=x"
si ottiene
teorema 3) esiste un y tale che (y=x)
il teorema 3) può essere ulteriormente abbreviato introducendo il simbolo "E!" per "esiste" (ha esistenza individuale) e scrivendo che "esiste (l'individuo) x" come "E!x". Quest'ultimo asserto, che è equivalente a teorema 3), sembra asserire anche che almeno un individuo esiste.
Pertanto nella nostra logica è la stessa cosa dire che x è identico a se stesso o che x esiste o che esiste un y che è identico a x, o che esiste almeno un x.
PREMESSE
1) x=x
2) A[y] se e solo se Esiste un x tale che (x=y) e A [x/y]
3) Pegaso non esiste
SPIEGAZIONE DELLE PREMESSE
Ti spiegherò solo la seconda premessa. Essa asserisce che un enunciato della forma, poniamo di "y gode della proprietà P", è equivalente all'enunciato "Esiste un x tale che y=x e x gode della proprietà P". Si tratta di un assioma delle logiche del primo ordine. Un suo esempio è ""Michela è simpatica" equivale a "Esiste un x tale che x=Michela (ossia "Michela esiste") e questo x è simpatico""
DEDUZIONE
I) x=x implica che Esiste un y tale che (x=y)
II) x=x
III) Esiste un y tale che (x=y)
III è ottenuto per MP da II , che è un assioma delle logiche del primo ordine, e da I, che è una conseguenza diretta della nostra definizione.
IV) Per ogni x Esiste un y tale che (x=y)
Si ottiene dalla generalizzazione universale di III
V) Per ogni x E!x
Questo enunciato, ottenuto sostituendo, tramite la definizione, in IV la stringa "Esiste un y tale che (x=y)" con "E!x", dice che tutto ciò di cui si parla in un linguaggio del primo ordine, esiste. Come abbiamo dimostrato, si tratta di un teorema delle logiche del primo ordine.
V asserisce che ogni oggetto nominabile col linguaggio esiste, perché così succede nei linguaggi del primo ordine, in cui ogni nome denota qualche elemento dell'universo di discorso.
Questo è un problema, se il nostro intento è l'analisi del linguaggio comune.
Così non ci sorprende trovare una contraddizione introducendo la premessa della forma "a non esiste". Proprio dell'enunciato V cerchiamo ora il contraddittorio:
VI) Che Pegaso non esiste implica che Esiste un x tale che (x=Pegaso & x non
esiste)
VI è semplicemente una forma del teorema "A[y] implica che esiste un x tale che
(x=y & A[x/y])"
VII) Pegaso non esiste
è una delle nostre premesse
VIII) Esiste un x tale che (x=Pegaso & x non esiste)
per MP da VI e da VII
IX) Esiste un x tale che x=Pegaso & Esiste un x tale che x non esiste
X) Esiste un x tale che x non esiste
XI) Esiste un x tale che non E!x
XII) non per ogni x E!x
XII è la contraddittoria di V.
B: Dunque quale premessa dobbiamo rifiutare per non giungere a una contraddizione?
A: Si potrebbe pensare che essendo 1) e 2) teoremi di una logica del primo ordine, non è da filosofi timorati di Dio rifiutarli.
B: Tuttavia a ben vedere i problemi sorgono proprio dal conseguente di VI:
Esiste un x tale che (x=Pegaso & x non esiste).
Esso sembra già contenere in sé la contraddizione.
Ciò ci porta a riflettere sull'universale applicabilità del teorema
2) A[y] implica Esiste un x tale che (x=y e A[x/y])
nei casi in cui y denoti oggetti inesistenti [qui si suppone che il trattamento delle variabili individuali e dei termini individuali sia uniforme].
A: Effettivamente, le logiche libere (da presupposizioni esistenziali), create a partire dalla metà degli anni '50 per ovviare a questo genere di problemi, non permettono di utilizzare 2) come teorema, ma soltanto una sua restrizione ai casi in cui y denoti oggetti esistenti.
Il punto di partenza degli studi sulle logiche libere fu l'articolo di Henry S. Leonard, La logica dell'esistenza, edito nel 1955. Ma l'espressione "Logiche libere" (da presupposizioni esistenziali) risale a qualche anno dopo, ad opera di K. Lambert. Fu successivamente criticata perché non esiste un suo collegamento con l'espressione "algebre libere".
Ad ogni modo Leonard fece osservare come la logica classica non sia priva di presupposizioni esistenziali, e che queste mal si accordano con il sistema di verità che egli prende in considerazione (ad esempio quelle riguardanti gli oggetti che non esistono), e che quindi la logica classica va emendata.
Egli distingue fra esistenza generale e esistenza singolare.
B: questo mi interessa, spiega ...
A: Quando affermo che la denotazione di un termine generale esiste, come nel dire che esistono le cose rosse, o che esistono i pinguini, parlo dell'esistenza generale.
Questo senso di esistenza si può esprimere con il quantificatore esistenziale della logica classica (nella fattispecie con gli enunciati "esiste un x tale che x è rosso" o "esiste un x tale che x è un pinguino") e infatti Leonard propone la seguente definizione di esistenza generale:
S ha esistenza generale se ogni occorrenza di "S" nel linguaggio può essere sostituita con "esiste un x tale che x gode di S"
.
In altri termini, qualcosa ha esistenza generale se ha degli esempi esistenti.
Come si vede facilmente, l'esistenza generale non può essere predicata di individui.
B: Gli individui non sono fra il genere di cose che esistono secondo questa nozione di esistenza.
A: Viceversa gli individui possono godere di esistenza individuale. In questo senso si usa la parola "esistere" quando si afferma che Michela esiste o che esiste un certo numero.
Il fatto che l'individuo "a" gode di esistenza individuale, ossia che "a esiste" è vero, si esprime utilizzando la notazione
E!a
Il genere di presupposizioni esistenziali della logica classica, che spinsero Leonard a proporre le sue correzioni, possono essere resi chiari da alcuni esempi. Ne ho preparati quattro. Ti va di sentirli?
B: senza dubbio
esempio 1.
A:
All'interno della logica classica, introducendo la quantificazione su simboli di relazione, possiamo definire l'espressione (definizione risalente a Church)
"E!x"
con
"Esiste una proprietà P tale che x gode di P"
Quindi esistere significa avere almeno una proprietà (Cartesio utilizzò una presupposizione di questo tipo nel formulare il Cogito ergo sum: se ho la proprietà di pensare, allora esisto).
Tuttavia si può non essere d'accordo con tale presupposizione: in fondo il circolo quadrato gode della proprietà di essere un oggetto concepibile, e tuttavia non esiste.
Un modo alternativo di definire "E!", diffuso nella logica libera, è quello secondo cui
E!x
sarebbe uguale per definizione a
Esiste un y tale che (x=y)
Ossia esiste di esistenza individuale ciò che è identico almeno a se stesso.
B: Secondo quest'altra definizione di esistenza, Cartesio avrebbe dovuto dedurre che l'io esiste (in quanto io pensante), dal fatto che vi sia un io identico a se stesso (che pensa la molteplicità delle cose pensate)
A: posizione quest'ultima che può essere facilmente messa in discussione come fece, e.g. Hume poco dopo, negando l'identità dell'Io.
Ma può ben darsi che definire l'esistenza sulla base dell'identità sia solo un artificio che mettiamo in atto quando non possediamo definizioni migliori.
Esempio 2
.
Nel calcolo dei Principia, è un teorema
E!x
ossia è vero che esiste almeno un oggetto.
Anche questa presupposizione può essere rifiutata: non si vede il motivo per cui la logica debba presupporre che almeno una cosa esista. Potremmo desiderare che il nostro linguaggio si attagli altrettanto bene alla situazione in cui nulla è (le logiche valide per ogni tipo di dominio, compreso l'insieme vuoto, sono dette inclusive).
Esempio 3.
Nel calcolo dei Principia, è un teorema
Per ogni x, E!x
Ogni nome del linguaggio è un nome di oggetto esistente. Questo perché in un linguaggio logico creato, come quello dei Principia, per parlare di entità matematiche, non si dà il caso, per es., che nella serie dei numeri qualcuno non esista. Viceversa non ne deve mancare neanche uno ... e possiamo nominarli tutti.
Ma se il nostro intento è mettere in luce la logica del linguaggio ordinario, possiamo essere insoddisfatti da questa situazione. Nel linguaggio ordinario non basta non essere autocontraddittori per esistere. Nel linguaggio ordinario parliamo di e pensiamo comunemente a oggetti inesistenti come Babbo Natale o la Befana o il reddito mensile che ci piacerebbe fosse nostro.
Per dirla con Church, la costruzione di linguaggi formalizzati contenenti termini non denotanti dimostrerebbe che "L'evitare i nomi non denotanti in un linguaggio formalizzato è una questione di scelta piuttosto che una necessità teorica".
Esempio 4.
Nelle logiche del primo ordine è un teorema
se Px allora esiste un y tale che Py
Da ciò possimo trarre una regola di inferenza, che ci permette di passare da
Px
a
Esiste un y tale che Py
In alcuni casi ciò non dà problemi:
da
Michela è una bella ragazza
possiamo dedurre che
Esiste qualcosa che è una bella ragazza
Tuttavia, sembra più problematico dedurre
Esiste qualcuno che abita al Polo Nord
dall'enunciato
Babbo Natale abita al Polo Nord
Eppure è proprio quello che possiamo dedurre nella logica dei Principia ...
Tutte queste presupposizioni esistenziali possono essere rese esplicite ed eliminate.
La strategia di Leonard si basa sulla seguente osservazione:
le proprietà necessarie possedute da un oggetto non ne garantiscono l'esistenza. Viceversa le proprietà contingenti di un oggetto, ne garantiscono l'esistenza.
Ad esempio dal fatto che necessariamente la diagonale del circolo quadrato è uguale alla lunghezza del lato per la radice di due, non posso dedurre che il circolo quadrato esiste. Viveversa dal fatto che penso (il che costituisce una mia proprietà contingente) posso dedurre che esisto (esattamente come fece Descartes).
A questo punto non sarà difficile comprendere la definizione di esistenza fornita da Leonard (si noti che essa è formulata utilizzando la nozione modale di possibilità e la quantificazione su proprietà, due cose che la rendono problematica dal punto di vista filosofico; noto inoltre che l'autore ritiene che non sia perseguibile alcuna soluzione dei problemi proposti se si rifiuta l'utilizzo delle modalità in logica: la nozione di esistenza sembra richiedere la nozione di possibilità per la sua analisi logica):
E!x = Esiste una proprietà P tale che (Px ed è possibile che non Px)
B: Così esistere significherà essere portatore di almeno una proprietà contingente.
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