FILOSOFI E FILOSOFIE


Mensile di filosofia a cura di Roberto Vescarelli


N°3, V-2006


CONTENUTI:


PSEUDO-PROBLEMI NELLA FILOSOFIA
LA FILOSOFIA DELLA STORIA DI HERDER: UNA PROSPETTIVA GRECO-CENTRICA? di Diego Fusaro

PSEUDO-PROBLEMI NELLA FILOSOFIA

di Roberto Vescarelli


Nel 1928 apparvero separatamente i due scritti di Carnap "Der Logische Aufbau der Welt" e "Scheinprobleme in der philosophie". Nel 1962 furono ristampati in un unico volume. Nella prefazione a questa seconda edizione tedesca dell'Aufbau, Carnap parla anche dell'articolo "Pseudoproblemi nella filosofia":
"[Esso] apparve nel 1928 quasi contemporaneamente all'Aufbau. Tuttavia non lo scrissi prima della fine del 1927, al termine del primo anno a Vienna. Vi si rileva più forte, pertanto, l'influsso delle discussioni viennesi e del libro di Wittgenstein. [...]. Dapprima viene formulato un criterio generale di significanza. [...]. Sulla base del criterio di significanza viene poi operato un controllo delle diverse tesi intorno alla realtà. Vi si dimostra che tanto la tesi realista dell'esistenza del mondo esterno, quanto la tesi idealistica della sua irrealtà, sono pseudo - enunciati, enunciati privi di contenuto fattuale. Si dimostra la stessa cosa per la tesi della realtà o irrealtà del campo psichico altrui. Questa condanna di tutte le tesi intorno alla realtà metafisica (che è nettamente distinta dalla realtà empirica) è più radicale di quella contenuta nell'Aufbau, dove tali tesi venivano solamente escluse dal dominio della scienza. Il mio orientamento più radicale fu dovuto, in parte, alla concezione di Wittgenstein per la quale gli enunciati della metafisica sono privi di significato, in quanto inverificabili di principio. Questa posizione fu condivisa dalla maggior parte dei membri del Circolo di Vienna e degli altri empiristi. Viceversa, il rifiuto delle tesi realistiche non fu accettato da tutti. Wittgenstein non aveva esplicitamente incluso queste tesi fra le dottrine metafisiche che avrebbero dovuto essere respinte; Schlick si definiva un realista e accettò solo più tardi la mia posizione; Reichenbach non la condivideva. Io ho conservato queste posizioni anche dopo che il criterio empirico del significato aveva subito diverse trasformazioni ed era diventato considerevolmente più liberale".
L'edizione del '62 venne tradotta in italiano nel '66 (La costruzione logica del mondo, trad. E. Severino, Milano, Fratelli Fabbri Editori), e in inglese nel '67 (The logical Structure of the World, trad. R.A.George, Berkeley, University of California Press). In questo scitto discuteremo le posizioni filosofiche assunte da Carnap nell'articolo del 1928.


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L'articolo "Pseudoproblemi nella filosofia; il campo psichico altrui e la polemica sul realismo" si divide in due parti. La prima tratta del compito dell'epistemologia (I. The aim of epistemology), la seconda dell'eliminazione di alcuni problemi dalla gnoseologia (II. Elimination of pseudoproblems from the theory of knowledge). Ogni parte comprende due sezioni, la seconda delle quali è l'applicazione dei concetti teorici definiti nella prima. La prima sezione della prima parte si occupa del significato dell'analisi epistemologica (IA. The meaning of epistemological analysis).

Vengono definiti i concetti di:

a) "parte sufficiente" (sufficient) e "superflua" (dispensable) del contenuto di qualche esperienza.
b) "Ricostruzione razionale".
c) "nucleo" (kern, nucleus) e "parte secondaria" (nebenteil, secondary part) del contenuto di qualche esperienza.

Nella seconda sezione della prima parte, si applicano questi concetti al problema della conoscenza del campo psichico altrui (fremdpsychisch). (IB. Application: knowledge of the heteropsychological). Nella prima sezione della seconda parte viene fornito un criterio che permette di distinguere gli enunciati significanti dagli pseudo - enunciati privi di significato (IIA. The meaning criterion). Carnap sostiene che "Only statements with factual content are theoretically meaningful". Infatti "if the statement expresses a state of affairs than it is in any event meaningful; it is true if this state of affairs exists, false if it does not exist. One can know that a statement is meaningful even before one knows whether it is true or false".

Sarebbe difficile negare che questo criterio di significanza per gli enunciati derivi dal Tractatus di Wittgenstein:

4.06 La proposizione può essere vera o falsa solo in quanto immagine della realtà.
4.21 La proposizione più semplice, la proposizione elementare, asserisce il sussistere di uno stato di cose.
4.25 Se la proposizione elementare è vera, lo stato di cose sussiste; se la proposizione è falsa, lo stato di cose non sussiste.
4.024 ... una proposizione la si può comprendere senza sapere se essa sia vera ...

In questa sezione vengono definite altre interessanti proprietà degli enunciati, oltre a quella di avere un contenuto fattuale:

a) "essere supportato da" (supported by) un'esperienza.
b) "essere verificabile" (testable).

Inoltre, nel paragrafo 8, le rappresentazioni sono suddivise in "fattuali" (factual) e "oggettuali" (object representations). Ciò si ricollega al criterio di significanza in quanto, secondo Carnap e in generale, per il neopositivismo, un autentico enunciato è l'espressione linguistica del contenuto di una rappresentazione fattuale. Il contenuto di una rappresentazione oggettuale, invece, non può essere espresso sotto forma di enunciato. Ciò che si ottiene quando un tale contenuto viene forzato a quell'espressione linguistica, è uno pseudo - enunciato, cioè una "meaningless collection of signs".

La seconda sezione della secoda parte applica queste nozioni alle tesi dell'idealismo e del realismo (nelle quattro forme: reatà/irrealtà del mondo esterno, esistenza/inesistenza delle menti altrui), cercando di mostrare che esse sono prive di significato. L'articolo si chiude con una ricapitolazione e una "classificazione dei possibili punti di vista contrari", in cui Carnap confuta quelle che potrebbero essere le obiezioni al suo criterio di significanza. Infine l'autore invita caldamente tutti i futuri critici a sostenere, per amor di chiarezza, solo le obiezioni a cui egli ha già dato risposta.


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Carnap inizia il suo articolo fornendo una caratterizzazione intuitiva del compito dell'analisi epistemologica.
Il problema dell'epistemologia è la determinazione di un metodo che permetta di rispondere alla domanda: quando abbiamo una conoscenza autentica? Ossia: come possiamo "giustificare" una conoscenza? (par. 1).
La giustificazione desiderata è ottenibile attraverso l'analisi epistemologica del contenuto della conoscenza. Un contenuto è detto "epistemologicamente analizzato" quando è stato ricondotto ai contenuti di altre conoscenze, delle quali si presuppone la validità.
In questo senso il compito dell'epistemologia è la sistemazione gerarchica degli oggetti delle varie scienze, sistemazione in cui gli oggetti "superiori" risultano riducibili agli (epistemologicamente analizzabili nei termini degli) oggetti "inferiori".
Naturalmente, l'analisi si deve arrestare di fronte agli oggetti semplici: "Those objects which can no longer be reduced are called "(epistemological) fundamental" objects".
Carnap insiste molto sulla caratterizzazione del genere di entità che possono essere analizzate epistemologicamente. Se l'analisi fosse applicata direttamente alle esperienze, si otterrebbero dei risultati certamente curiosi. Prima di tutto solo le esperienze "attuali" potrebbero essere analizzate; in secondo luogo, gran parte di quelle stesse esperienze sarebbe "superflua", nel preciso senso che, se venisse concretamente a mancare, la nostra conoscenza del mondo non subirebbe alcun cambiamento.
Al fine di evitare queste spiacevoli conseguenze, l'autore restringe l'ambito di applicabilità dell'analisi a ciò che egli chiama "contenuto delle esperienze"; sicché "Epistemological analysis is an analysis of the contents of experiences, more precisely the analysis of the theoretical content of experiences" (par. 2).
E' ragionevole supporre, considerando gli esempi forniti da Carnap, che il rapporto fra esperienza ed analisi sia il seguente: un'esperienza è un insieme di rappresentazioni; tutte le rappresentazioni di cui è composta devono risultare ugualmente importanti, di modo che se una sola venisse eliminata, l'esperienza sarebbe diversa: se dall'esperienza E della forma e del colore di un oggetto si eliminasse la rappresentazione del colore, si otterrebbe un'esperienza distinta da E. L'analisi, invece, dovrebbe essere in grado di stabilire la sussistenza o la non sussistenza di una subordinazione logica o epistemologica fra i contenuti dell'esperienza, senza che ciò infirmi la concreta indipendenza delle componenti rappresentative in essa presenti.
La soluzione consiste nel guardare all'esperienza come a una possibile fonte di conoscenza. I n questo modo è sensato, almeno secondo Carnap, asserire che non ogni rappresentazione è indispensabile.
Supponiamo che l'oggetto O sia molto familiare al soggetto S. Se S, ad occhi chiusi, tocca O e lo riconosce, può darsi che l'esperienza di S contenga, oltre alla rappresentazione tattile di O, anche la sua rappresentazione visiva. Infatti il contenuto di questa rappresentazione può essere inferito dal contenuto della rappresentazione tattile e dalle precedenti conoscenze di S. Quindi la conoscenza di S non è accresciuta dal fatto di espere la rappresentazione visiva di O: "We could dispense with the epistemic evaluation of this constituent (the visual shape) without thereby diminisching the extent of our knowledge".

Tuttavia ciò è molto strano. Carnap sembra sostenere che, se conosciamo tutte le premesse necessarie ad inferire una conclusione, allora, in un certo senso, conosciamo già la conclusione, anche se l'ultima cosa che saremmo disposti a credere è che tale conclusione derivi proprio da quelle premesse. Un modo per non attribuire a Carnap questa opinione, sarebbe quello di mostrare che egli non intende il termine "inferenza" in senso logico. Ma allora "conoscenza" non può avere il suo significato usuale.
Il problema è analogo a quello detto "dell'onniscenza logica", che sorge quando i sistemi di logica modale (in particolare S5) sono utilizzati per analizzare la semantica degli atteggiamenti proposizionali di conoscenza e credenza.
Supponiamo che O sia effettivamente molto familiare a S. Può darsi che, per qualche ragione, S abbia dimenticato il colore di O. Allora sembra plausibile sostenere che S non conosca la verità dell'enunciato, e.g., "O è verde".
Quando però S tocca O ad occhi chiusi e lo riconosce, può accadere che si ricordi del colore che aveva frequentemente percepito insieme all'oggetto, prima di dimenticarsene. In questo caso l'esperienza di S sarebbe composta di una rappresentazione tattile e di una visiva, rappresentazione visiva che fornirebbe realmente una nuova conoscenza. Dopo averla avuta, S sarebbe in grado di rispondere alla domanda "qual è il colore di O?", a cui prima non avrebbe dato risposta.
Tuttavia, secondo Carnap, le cose stanno in maniera diversa. Ciò che dovremmo dire è che, siccome il contenuto della rappresentazione visiva può essere inferito da quello della rappresentazione tattile e dalle precedenti conoscenze di S, il contenuto della rappresentazione visiva può essere eliminato senza con ciò diminuire la conoscenza che S ha di O. Purtroppo, senza la rappresentazione visiva, la conoscenza di S sarebbe invece priva di un elemento importante, a meno di intendere per "conoscenza di S" anche ciò che S ha dimenticato e non è più in grado di riportare alla memoria.

Sulla base della convinzione che non tutta l'esperienza arricchisca la conoscenza, Carnap traccia una prima suddivisione fra costituenti sufficienti e costituenti superflui del contenuto teoretico di qualche esperienza.
Il contenuto b di una esperienza E di S è superfluo rispetto al contenuto a (di E), se b può essere inferito da a e dalle precedenti conoscenze di S. a è detto costituente sufficiente di E (rispetto a b). L'inferenza da a (e da qualche conoscenza anteriore) a b, è detta "ricostruzione razionale di b". Viene sottolineato che:

"It is not necessary in such a case that I should be expressly conscious of the theoretical content of b; it is merely required that a, together with my prior knowledge, should logically contain b. If the theoretical content of b is logically contained in a and my prior knowledge, then it must be possible to derive it from them through inference".

Naturalmente, un'esperienza concreta non contiene inferenze o suddivisioni logiche:

"There can be no question that both constituents are simply experienced as an intuitive unit: there is not a trace of inference in such an experience".
Così solo il contenuto conoscitivo di un'esperienza può essere inferito (o suddiviso in) altri contenuti.
La divisione fra parte sufficiente e parte superflua è una divisione logica. L'analisi epistemologica introduce l'ulteriore suddivisione in "nucleo" e "parte secondaria". Affinché i contenuti a e b di una esperienza siano nella relazione nucleo / parte secondaria, deve avvenire che:

1. a sia sufficiente rispetto a b.
2. b possa essere "giustificato" sulla base di a.
3. b possa essere errato.

Per quanto riguarda 2., Carnap sostiene che:

"In order to answer the question whether two given constituents of an experience, a and b, are nucleus and secondary part of that experience, we will, as a rule, turn to the special science which is concerned with the field in question. We will investigate whether, according to the methods customary in that field, an assertion which is based upon the content of b is considered demonstrate if for its justification we can refer to a cognition based on the content of a" (IA3b).

Tutti i concetti definiti vengono applicati al problema delle menti altrui.


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Esiste una certa affinità fra la parte dedicata alla conoscenza di avvenimenti mentali (IB) e il terzo capitolo di Our Knowledge of the External World [Russell, 1914].
Nella sua Autobiografia intellettuale Rudoph Carnap riferisce che, mentre lavorava all'Aufbau (e all'articolo Pseudoproblemi nella filosofia), venne "ispirato dalla descrizione di Russell relativa allo scopo e al metodo della filosofia futura".
Nell'opera del 1914 tale descrizione è ampiamente presente (primo cap. e seconda parte dell'ottavo). Ciò non è sufficiente per affermare una conoscenza diretta. Basta, comunque, per rendere interessante il confronto fra i due testi.
Russell tratta il problema delle altre menti nell'ambito del problema dell'esistenza di entità extra - soggettive. La differenza fondamentale, rispetto all'impostazione carnapiana, risiede nella natura stessa dell'argomento: per Russell si tratta di un autentico problema filosofico, per Carnap di uno pseudo - problema, cioè di un problema necessariamente insolubile (a causa della sua ingannevole formulazione linguistica).
La conclusione di Russell è un invito al buon senso poiché la questione, da un punto di vista logico, deve rimanere aperta:

Si deve ammettere in primo luogo che la prova dell'esistenza delle menti altrui non può essere conclusiva ... La prova ovvia è naturalmente basata sull'analogia ... Si deve ammettere che l'ipotesi secondo cui le altre persone hanno una mente, non è suscettibile di un appoggio molto forte da parte della prova analogica ... Qualsiasi cosa cerchiamo di pensare come filosofi, non possiamo fare a meno di credere nella mente altrui; sicchè il problema di giustificare la nostra credenza, ha un interesse semplicemente speculativo.

Carnap, almeno in IB, sembra invece impegnato in un'autentica giustificazione filosofica della credenza nelle menti altrui. Come osserva Ayer [in Schilpp, La filosofia di Rudolf Carnap, 7]:

[Il titolo dell'articolo carnapiano] è comunque, fuorviante, almeno per quanto riguarda il problema delle altre menti; poiché, ben lungi dal dimostrarlo uno pseudo - problema, che non poteva essere affatto risolto, egli stesso ne offre una soluzione.

Ma le tesi centrali dei due scritti sono concettualmente vicine:

Questa fede (la credenza che l'altra gente sia fornita di mente) è, dal punto di vista psicologico, derivata dalla percezione dei corpi degli altri e richiede una giustificazione logica appena siamo consapevoli della sua derivazione.

In ogni caso concreto in cui abbiamo conoscenza della mente di un altro, il nucleo epistemologico di questa conoscenza consiste in osservazioni fisiche ossia, equivalentemente, le altre menti subentrano solo come parti (epistemologicamente) secondarie di eventi fisici.

La tesi di Carnap contro il solipsismo viene dimostrata in tre passi, corrispondenti ai criteri che due contenuti devono soddisfare per essere nella relazione nucleo / parte secondaria.

(I)


Possiamo venire a conoscenza di fatti riguardanti le menti altrui in tre modi distinti. Per ognuno di essi si tratta di mostrare che la parte fisica della conoscenza è sufficiente rispetto a quella riguardante eventi mentali, cioè, che di quest'ultima esiste una ricostruzione razionale basata esclusivamente su conoscenze fattuali.

PRIMO CASO (E1)
Quando un soggetto riporta oralmente o per iscritto i propri processi coscienti (processes of consciouseness) la nostra esperienza può essere divisa in due parti:

a1) i fatti fisici riguardanti la percezione dei suoni e dei segni

b1) il significato dei suoni o dei segni.

Siccome b1) è inferibile da a1) e da conoscenze anteriori, b1) è superfluo rispetto ad a1):

I can infer from the perceived worlds (either the heard noises, or the seen figures) the meaning of the statement: and this is the content of b1), namely the heteropsychological occurrence which is cognized in E1 .

In questo modo l'inferenza sembra portare dalle competenze linguistiche del soggetto S e dalla sua attuale percezione di certi segni, all'esistenza di un significato dei segni stessi. A quale mente va attribuita la conoscenza di tale significato? Evidentemente, se b1) appartiene all'esperienza E1 di S, una ricostruzione razionale di b1) sulla base di a1) non può avere l'effetto di rendere b1) indipendente da S. Quando S comprende un enunciato dell'italiano, secondo Carnap, il suo significato (b1) può essere inferito dal fatto che S ascolta o vede l'enunciato (a1) e, in più, conosce l'italiano. Così a1) appartiene all'esperienza di S, b1) appartiene all'esperienza di S, e il motivo per cui il significato dell'enunciato dovrebbe essere anche in qualche mente diversa da quella di S, rimane un mistero insondabile. La posizione di Russell, per altri versi molto simile, non presenta questi problemi:

Quando sentiamo certi rumori che sono quelli che faremmo noi se desiderassimo esprimere un pensiero determinato, affermiamo che quel pensiero, oppure uno molto simile ad esso, è stato in un'altra mente e ha dato origine all'espressione che sentiamo. Se allo stesso tempo vediamo un corpo che somiglia al nostro muovere le labbra come muoviamo le nostre quando parliamo, non possiamo resistere all'idea che sia vivo e che i suoi sentimenti continuino, quando non lo guardiamo. Quando vediamo un amico lasciarsi cadere un peso su un dito del piede e lo udiamo dire ciò che diremmo noi in circostanze simili, non si può senza dubbio spiegare i fenomeni dicendo che egli non è niente altro che una serie di forme e di rumori visti e sentiti da noi.

E' chiaro che qui viene aggiunta, rispetto alla procedura carnapiana, un'ulteriore inferenza dal fatto che qualcosa è fonte di enunciati significanti al fatto che questo qualcosa è fornito di mente. S sente certi rumori (a1) provenienti da F; i rumori appartengono a un linguaggio conosciuto e, quindi, hanno per S un significato (b1). Il passo successivo consiste nell'inferire che F abbia una mente. L'inferenza può essere sbagliata. Difficilmente una macchina che sia in grado di pronunciare enunciati di una lingua verrebbe considerata, esclusivamente sulla base di questa capacità, fornita di mente. Tuttavia, non è questo il motivo per cui Carnap rifiuta l'aggiunta russelliana. La definizione della relazione nucleo - parte secondaria ci assicura che se b è la parte epistemologicamente secondaria del contenuto di una esperienza (nella fattispecie la conoscenza della mente della macchina), allora b deve poter essere errata. Russell scrive:

La prova banale è ovviamente basata sull'analogia: I corpi degli altri si comportano come i nostri, quando hanno certi pensieri e sentimenti: perciò, per analogia, è naturale supporre che un comportamento simile è connesso con pensieri e sentimenti simili ai nostri.

La condizione che non può essere soddisfatta dalla inferenza analogica è quella riguardante la reazione sufficiente / superfluo. Dalla conoscenza di un comportamento simile al nostro (a1) non si deduce (logicamente) l'esistenza di pensieri e sentimenti simili ai nostri (b1) ma appartenenti ad altre menti (questo tipo di obiezione logica agli argomenti basati sull'analogia risale a J.S. Mill). Quindi l'argomento analogico è in contrasto con l'idea carnapiana secondo cui "the heteropsychological occours only as an (epistemologically) secondary part of the physical". Tutto ciò ha delle strane conseguenze:

"This reconstruction presupposes, of course, that the words which occour are already known or that their meaning can be surmised: If this presupposition is not fulfilled, then no experience of kind E1 is present; the constituent b1 does not occour; if I get a letter in chinese, I see nothing but black lines without finding out anything about heteropsychological occurrences".

Cioè, ignorando il cinese, non possiamo conoscere "che cosa" l'autore della lettera abbia pensato, anche se, indubbiamente, "qualcosa" deve pur essere stato pensato, visto che le lettere non si generano dal nulla. Gli storici napoleonici, vedendo la stele di Rosetta, non conclusero che la vita mentale degli antichi egizi doveva essere particolarmente confusa. Ritennero invece che la parte superiore della lastra basaltica fosse stata incisa per esprimere pensieri ben determinati, la cui esistenza non poteva essere dipendente dalla loro ignoranza della lingua.

SECONDO CASO (E2)

[Heteropsychological facts] are discovered without report if I observe expressive motions (facial expressions, gestures), or acts of A.

La conoscenza del significato della espressioni di A (b2) è superflua rispetto alla conoscenza puramente fattuale (a2) contenuta in E2. (b2) può essere inferita da (a2) e dalla precedente conoscenza del significato di quel tipo di espressioni: i fatti mentali hanno una giustificazione solo in relazione ad avvenimenti fisici. Analogamente, Russell osserva che:

Dall'espressione del viso di un uomo giudichiamo che cosa sente: diciamo che vediamo che egli è in collera, quando in realtà vediamo solo un aggrottare le ciglia. (l'esempio è usato anche da Carnap).

TERZO CASO (E3) "I can surmise the conscious processes of A if I know his character and know, in addition, that he is now subject to certain external conditions".

Esiste una ricostruzione razionale della conoscenza dei processi coscienti di A (b3) basata sia sulla conoscenza del carattere di A, sia sulla conoscenza delle condizioni a cui egli è attualmente sottoposto (a3).

(II)


I casi E1, E2, E3, costituiscono il solo modo in cui possiamo avere conoscenza del campo psichico altrui (IB4). Per ognuno di essi, la percezione di avvenimenti fisici è sufficiente rispetto alla conoscenza di eventi mentali. Per dimostrare che la percezione di avvenimenti fisici è anche il nucleo di E1, E2, E3, il primo passo dell'analisi epistemologica consiste nel "giustificare" b1, b2, b3, sulla base di a1, a2, a3, ossia, nello stabilire se qualche parte della scienza dimostra asserzioni riguardanti b1, b2, b3, riferendosi ai contenuti di a1, a2, a3 (IB5). Secondo Carnap, la psicologia spiega proprio in questo modo l'attribuzione di pensieri e sentimenti ai soggetti.

(III)


Resta da dimostrare che b1, b2, b3, possono essere errate:

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Nella seconda parte dell'articolo "Pseudoproblemi nella filosofia", viene formulato un criterio empirico di significanza (IIA). La sua applicazione alle tesi realiste e idealiste (IIB) porta a concludere che esse sono prive di contenuto fattuale.
Il criterio di significanza ha una chiara origine wittgensteiniana: I membri del Circolo di Vienna lessero e discussero il Tractatus a partire dal 1926: Per di più, poco prima di scrivere il suo articolo (fine del 1927), Carnap conobbe personalmente Wittgenstein:

Nella sua Autobiografia intellettuale Carnap riferisce che Wittgenstein fu d'accordo di trovarsi con Waismann e con lui. Così essi si incontrarono diverse volte con Wittgenstein durante l'estate del 1927.

Un enunciato è "significante" se esprime uno stato di cose. E' vero se lo stato di cose sussiste, falso altrimenti. Se l'enunciato P esprime il contenuto dell'esperienza E, allora P è "supportato da" E.
P è "verificabile" se esiste un'esperienza E che supporta P o la sua negazione. P ha un "contenuto fattuale" se è almeno concepibile un'esperienza E in grado di rendere verificabile P.
"Verificabilità" è intesa come "verificabilità attuale". "Avere un contenuto fattuale" è inteso come "verificabilità in linea di principio". Pertanto, ogni enunciato verificabile ha un contenuto fattuale, sebbene non sia vero il contrario. Inoltre, ogni enunciato verificabile o fornito di contenuto fattuale è significante.
Gli enunciati delle scienze empiriche sono forniti di contenuto fattuale, e quindi sono veri o falsi. Solo nella filosofia e nella teologia occorrono espressioni prive di contenuto fattuale. Può succedere che esse sembrino enunciati. In realtà, sono soltanto "meaningless collections of signs". Queste false asserzioni non posseggono né l'informatività degli asserti empirici, né l'analiticità di quelli logici. Non avendo un significato, qualsiasi disputa intorno alla loro verità o falsità è completamente sterile.
Queste idee sono tipiche della prima fase dell'empirismo logico, e si ritrovano identiche nel manifesto programmatico del 1929 (Carnap, Neurath, Hann, La concezione scientifica del mondo; il Circolo di Vienna):

Se qualcuno afferma "esiste un dio", "il fondamento assoluto del mondo è l'inconscio", "nell'essere vivente vi è un'entelechia come principio motore", noi non gli rispondiamo "quanto dici è falso", bensì a nostra volta gli poniamo un quesito: "che cosa intendi dire con i tuoi asserti?". Risulta chiaro, allora, che esiste un confine preciso fra due tipi di asserzioni. All'uno appartengono gli asserti formulati dalla scienza empirica; il loro senso si può stabilire mediante l'analisi logica: più esattamente, col ridurli ad asserzioni elementari sui dati sensibili ... Il Circolo di Vienna sostiene, inoltre, che anche gli asserti del realismo (critico) e dell'idealismo circa la realtà o irrealtà del mondo esterno e delle altre menti hanno carattere metafisico.

Qual è il ruolo degli pseudo - enunciati della metafisica? Nello scritto del 1929 si legge:

Il metafisico e il teologo credono, a torto, di asserire qualcosa, di rappresentare stati di fatto, mediante le loro proposizioni. Viceversa, l'analisi mostra che simili proposizioni non dicono nulla, esprimendo solo atteggiamenti emotivi. Espressioni del genere possono, certo, avere un ruolo pregnante nella vita; ma, al riguardo, lo strumento espressivo adeguato è l'arte, per esempio la lirica o la musica.

Per arrivare ad un risultato analogo, Carnap divide le rappresentazioni in "fattuali" e "oggettuali" (IIA8). L'espressione linguistica del contenuto di una rappresentazione del primo tipo è un enunciato. L'espressione linguistica del contenuto di una rappresentazione del secondo tipo è un nome proprio.
All'asserzione di un enunciato (atomico) sono collegate sia la rappresentazione fattuale del suo senso, sia, solitamente, altre rappresentazioni (- oggetto) che non hanno alcun rapporto con la verità dell'enunciato. L'enunciato può suscitare stati d'animo o anche rappresentazioni - oggetto che ne facilitano la comprensione, senza che tutto ciò influisca sul suo contenuto. Trasformare queste rappresentazioni secondarie in pseudo - enunciati significa violare le leggi della grammatica.
L'importanza delle rappresentazioni secondarie è pratica, non teorica; possono aiutare la comprensione, ma la loro assenza non modifica il contenuto conoscitivo degli enunciati che le suscitano:

The accompany object rapresentations, since they cannot become the content of statements, are beyond truth and falsity: While the theoretical content of a statement must be justified by reference to some criterion, for example the indicated criterion of factual content, the object representations which accompany a statement are not subject to any theoretical control; they are theoretically irrilevant but frequently of great pratical importance.


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David hume scriveva (Trattato sulla natura umana, I, III, V):

Quanto alle impressioni provenienti dai sensi, la loro causa ultima è, a mio avviso, assolutamente inesplicabile alla ragione umana, e sarà sempre impossibile stabilire con certezza se provengono immediatamente dall'oggetto o sono prodotte dal potere creativo della mente, oppure le abbiamo dall'autore del nostro essere. Al nostro intento non ha nessuna importanza tale questione: noi possiamo ragionare fondandoci sulla coerenza delle nostre percezioni, siano esse vere o false, rappresentino esattamente la natura o siano mere illusioni dei sensi.

Questa è anche, mutatis mutandis, l'opinione di Carnap. La tesi del realismo, che asserisce l'esistenza del mondo esterno, e quella dell'idealismo, che nega tale esistenza, sono ugualmente prive di significato. L'enunciato:

a) ci sono cose la cui esistenza è indipendente dalle mie percezioni,

è solo apparentemente un'espressione ben formata dell'italiano. In realtà, né a) né la sua negazione a') possono essere vere o false. Non è possibile indicare un'esperienza in grado di supportare a) o a'). quindi esse non sono né verificabili né fornite di contenuto fattuale.
La scienza è indipendente dagli pseudo - problemi sollevati dall'assunzione di a) o a'). D'altro canto, gli scienziati possono aderire al realismo o all'idealismo. In questo caso, il loro disaccordo non riguarderebbe questioni di fatto, ma solo pseudo - enunciati privi di valore conoscitivo esclusi dal dominio della scienza.
La realtà o irrealtà del campo psichico altrui è un altro problema che, passato al vaglio del criterio di significanza, si rivela insolubile. Accanto a questo risultato, abbiamo la riconducibilità delle osservazioni riguardanti eventi mentali ad asserzioni riguardanti eventi fisici. Ayer ritiene che ciò sia in contrasto con la pretesa di considerare la realtà o irrealtà delle menti come uno pseudo - problema. Ma Ayer si sbaglia.
In IB, si era mostrato che:

In all cases where heteropsychological occurrences are recognized, the epistemological nucleus of the experience in which the recognition takes place contains nothing but perceptions of physical events.

Cioé, quando qualcuno crede di conoscere eventi mentali altrui, ciò che realmente conosce sono solo avvenimenti fisici. Così Carnap non dice che le menti altrui esistono. Non dice neanche che esse non esistono. Si limita ad affermare che, indipendentemente dalla loro esistenza "S è in una certa condizione psicologica" è logicamente equivalente a "S presenta certe caratteristiche osservabili".
Non si vede perché ciò dovrebbe costituire una risposta affermativa o negativa, come vorrebbe Ayer, alla domanda: esistono altre menti?
IIB11 rappresenta l'equivalente linguistico della teoria gnoseologica esposta in IB: tutti i termini psicologici sono esplicitamente definibili in termini del linguaggio reistico e, quindi, tutti gli enunciati della psicologia sono traducibili in enunciati di quel linguaggio.
L'impressione che gli asserti psicologici dicano qualcosa di più dei corrispondenti asserti fattuali, è dovuta alla circostanza per la quale ai primi sono solitamente collegate delle rappresentazioni oggettuali.
Tali rappresentazioni aiutano la comprensione di termini come "gioia", "dolore", ecc., in quanto hanno un immediato riferimento autopsicologico. E' molto più semplice comprendere "A prova gioia" che "il sistema nervoso di A è in questa o quella situazione, accompagnata da certe caratteristiche osservabili". Da un punto di vista strettamente conoscitivo, però, i due enunciati hanno lo stesso contenuto. Così il linguaggio psicologico ha il vantaggio della brevità, non quello di comprendere nomi per entità misteriose e inconoscibili empiricamente.





LA FILOSOFIA DELLA STORIA DI HERDER: UNA PROSPETTIVA GRECO-CENTRICA?

di Diego Fusaro


  1. La filosofia della storia dell’umanità


Se al mondo di tutto c’è una filosofia e una scienza, non dovrebbe esserci anche una filosofia e una scienza di ciò che ci riguarda più da vicino, cioè della storia dell’umanità nel suo insieme?1






Con Johann Gottfried Herder (1744-1803) ci troviamo dinanzi a una figura che non può certo essere collocata nella galassia dei pensatori illuministi: è vero che egli fu allievo di Kant, di cui seguì le lezioni a Königsberg e col quale intrattenne sempre un vivace dibattito, spesso alimentato dalla divergenza di prospettive; ed è anche vero che a Parigi ebbe modo di conoscere i maggiori philosophes. E tuttavia è anche vero che la riflessione del nostro autore è animata da problematiche e da soluzioni che rinviano ad un panorama filosofico che non è più quello illuministico, trovandosi egli a condividere – almeno per un primo periodo della sua attività – la nuova prospettiva filosofica di Schiller e di Goethe, col quale diede l’abbrivio allo «Sturm und Drang», e criticando ferocemente gli «Enciclopedisti» francesi.

Il mutamento di paradigma rispetto ai canoni illuministici risulta lampante se si volge lo sguardo alla concezione che Herder ha della storia, intesa come un tutto organico che si sviluppa nel tempo, e ancor di più se si considera l’animosa polemica che il nostro autore conduce contro la maniera illuministica di intendere la storia come incessante progresso dall’arretratezza delle epoche passate – irrazionali e viziate da pregiudizi – alla superiorità dei tempi presenti. Del resto, la stessa polemica che impegnerà i Romantici e Hegel contro gli Illuministi sembra già tutta in nuce nella critica che Herder muove a Montesquieu, del quale rigetta senza remore il concetto stesso di «legge» intesa come fredda e astratta norma formale, contrapponendo ad essa il «costume» in virtù della sua maggiore vitalità, concretezza e organicità2. Liquidando l’Esprit des Lois come una «metafisica fatta per un morto codice»3, alla quale dev’essere contrapposta una «metafisica fatta per la formazione dei popoli»4, attenta alla cultura e alle tradizioni più che alle istituzioni statali che ne sono scaturite, il nostro autore sta già segnalando la distanza siderale che lo separa dall’Illuminismo e, insieme, la Weltanschauung che lo accomuna a Goethe e, almeno in parte, a Hegel. Molto significativo, a questo riguardo, è il giudizio di Isaiah Berlin, il quale scorge in Herder «il critico più profondo e più tagliente dell’illuminismo, formidabile come Burke e de Maistre, ma libero dai loro pregiudizi reazionari e dall’astio per l’uguaglianza e la fraternità»5. Le considerazioni che il nostro autore svolge in materia di filosofia della storia sono intrecciate a un’incessante critica dei portati della filosofia illuministica.

Il vero filo conduttore della filosofia herderiana può facilmente essere individuato nella sua riflessione sulla storia, alla quale possono essere ricondotte tutte le ulteriori articolazioni del suo pensiero: una concezione sulla quale Herder riflette incessantemente, apportandovi continue modifiche, e che giungerà a una formulazione esaustiva con le Idee per la filosofia della storia dell’umanità (1784-1791), opera destinata a esercitare un’influenza decisiva sul pensiero romantico e sullo storicismo tedesco di fine Ottocento. Nel Journal meiner Reise in Jahre 1769, Herder aveva narrato il succedersi di emozioni che s’erano impadronite di lui allorché, durante il suo viaggio per mare, era entrato in contatto con la natura e con le sue forze vive; e, sull’onda di questo entusiasmo, aveva asserito di voler scrivere una «storia dell’anima umana in genere, nei tempi e nei popoli», volta a mostrare come il Geist della cultura, della religione e della scienza sia passato di mondo in mondo e la «corrente dei tempi» sia giunta fino a noi. Un progetto ambizioso che troverà la sua concreta realizzazione nelle Idee, alla stesura delle quali il nostro autore fu incoraggiato da Goethe stesso. Lungi dall’essere un’opera composta di getto, esse costituiscono piuttosto la tappa conclusiva di un percorso iniziato da Herder parecchi anni prima, rispetto al quale uno dei momenti più importanti è sicuramente dato dallo scritto Ancora una filosofia della storia per l’educazione dell’umanità (1774): di quest’ultima opera, in particolare, le Idee si configurano come una riformulazione più completa e, per molti versi, differente, nella misura in cui viene abbandonato il tono predicatorio che la contraddistingueva. In Ancora una filosofia della storia, Herder era andato sviluppando quella concezione organicistica della storia alla quale resterà fedele anche nelle Idee, anche se in quest’ultima opera verrà meno l’enfasi con cui nella prima si insisteva sul parallelismo tra la vita del singolo uomo e quella dell’umanità nel suo complesso. Influenzato dalle tesi dello svizzero Isaak Iselin, autore di un’importante Geschichte der Menschheit, Herder è convinto che come lo sviluppo del singolo, così anche quello dell’umanità sia scandito da un processo che va dall’infanzia alla maturità, per giungere infine alla morte: e queste tre fasi corrisponderebbero, secondo Iselin, alle tre diverse facoltà della sensibilità, dell’immaginazione e della ragione. Così, nella fase dell’infanzia, corrispondente al mondo orientale, la vita umana – semplice e primitiva – sarebbe dominata dalla sensibilità; nella fase della giovinezza, che corrisponde al mondo greco e romano, predominerebbero invece l’immaginazione e il sentimento e, infine, la fase della maturità, corrispondente all’Europa moderna e al pieno raggiungimento della civiltà, vedrebbe l’egemonia della ragione. Può forse sorprendere il fatto che venga trascurata l’Età medievale, liquidata come un oscuro intervallo del tutto privo di valore: un giudizio che, a ben vedere, sembra rimandare al pensiero illuministico più che a quello romantico e che si ritrova, mutatis mutandis, anche in Hegel. Pur accettando la prospettiva di Iselin, Herder ritiene che essa vada emendata dai troppi giudizi di valore che la innervano (l’Età moderna veniva troppo enfaticamente encomiata in quanto superiore a tutte le altre) e, al tempo stesso, è convinto che si debba insistere maggiormente sull’unitarietà della storia, che è storia dell’umanità nel suo complesso, e sul suo carattere teleologico: proprio in forza del fatto che si configura come un momento che rientra nella totalità della storia umana, ogni mondo (orientale, greco, ecc.) racchiude un senso preciso ed è in sé positivo; aspetto, questo, scarsamente sottolineato da Iselin e – secondo Herder – del tutto trascurato dagli Illuministi. Così, in Ancora una filosofia della storia, Herder sostiene che il mondo orientale corrisponde all’infanzia, la civiltà egizia e fenicia alla fanciullezza, la grecità alla giovinezza, il mondo romano alla virilità, il tardo impero alla vecchiaia, fino a che le invasioni dei popoli barbarici non infondono nuova vitalità al decrepito corpo del genere umano. Possiamo notare, en passant, che lo stesso modello di sviluppo viene impiegato nello studio del linguaggio – altro tema cardinale in Herder – condotto nei Fragmente. Über die neuere deutsche Literatur (1766-1767), ove si asserisce che il passaggio dall’infanzia alla maturità del genere umano sarebbe ritmato dalla transizione dalla poesia alla prosa.

Se ci atteniamo alla linea interpretativa di Karl Löwith6 – suggestiva ma talvolta fuorviante, nella misura in cui non di rado accomuna posizioni diversissime –, il pensiero di Herder costituisce uno dei principali paradigmi di filosofia della storia del suo tempo, ponendosi come momento di una vera e propria secolarizzazione della concezione cristiana della storia come processo in vista della salvezza finale: non è certo un caso che la domanda ch’è sottesa alle Idee è se Dio, che nella sua infinita bontà ha conferito a ogni cosa il giusto ordine, abbia ordinato anche la storia; una risposta negativa a questa domanda equivarrebbe a uno scacco per la ragione umana, che si troverebbe costretta a negare due delle principali prerogative di Dio: la sapienza e la bontà. Dunque, per evitare di scivolare in questa aporia, è necessario ammettere che la storia, non meno della natura, sia governata in maniera immanente dalla divina Provvidenza e dunque non si risolva in uno spaesante succedersi di eventi episodici abbandonati al caso, ma piuttosto sia il dispiegarsi progressivo di un senso presente in ogni epoca storica e non soltanto o in misura maggiore nella tappe finali di quel processo. Si tratta però di un processo tutt’altro che lineare e irenico: esso assume piuttosto la forma di un avanzare a zig zag, con rientranze irregolari, con anse indecifrabili e non di rado incomprensibile agli occhi degli uomini. La prospettiva di Herder sembra, a un primo sguardo, coincidere con quella che sarà la prospettiva hegeliana: di fronte a quel «campo di lotta di passioni senza senso, di forze selvagge, di arti di distruzione» che è la storia, la ragione umana non può non domandarsi quale sia il senso e spingersi alla ricerca di un disegno più alto, al di là dell’accidentalità che sembra dilagare nel corso storico: e in questo modo giunge a capire che anche la storia ha un senso. Ma, nell’atto stesso di fondazione della filosofia della storia, Herder già segnala – e in ciò risiede la distanza che separa la filosofia della storia herderiana da quella di Hegel – che all’uomo non è dato afferrare il senso della storia, con la conseguenza che, a rigore, soltanto Dio potrebbe essere un filosofo della storia in senso pieno, essendo il solo ad abbracciare in maniera universale e, se vogliamo, dall’«alto» l’intero processo degli accadimenti umani. Ritmato da leggi cicliche valide per ogni popolo e dall’integrarsi dei risultati conquistati dalle diverse epoche, lo sviluppo storico sfugge alla presa di una ragione che possa afferrarne il senso ultimo: e ciò in virtù del fatto che ogni popolo e ogni uomo si trova calato nella storia, con la conseguenza che chi volesse trovarne il senso ultimo mentre si trova in essa agirebbe non diversamente da quel naufrago che volesse cercare un sostegno nelle onde del mare. Così scrive Herder:


«Sulla terra è fiorito tutto ciò che poteva fiorire, ogni cosa al suo tempo e nella sua cerchia: poi è sfiorito e tornerà a fiorire, quando verrà il suo tempo. L’opera della Provvidenza procede nel suo eterno cammino secondo grandi leggi universali, che noi ci accingiamo ora a considerare da vicino, con modestia»7.


Ogni qual volta ci si illuda di poter elaborare una filosofia della storia universale, si cade nell’errore degli Illuministi, i quali hanno inteso l’età a loro contemporanea come ulteriore e, per ciò stesso, superiore rispetto alle età precedenti; a questo errore se ne accompagna un altro, non meno grave: quello di distorcere i fatti, strumentalizzandoli e utilizzandoli surrettiziamente come prove volte a suffragare il proprio modello teorico: in tal maniera, anziché leggere filosoficamente la storia, la si mistifica piegandola ai propri convincimenti teorici. Per questo motivo, gli scritti sulla storia di Voltaire e di Hume sono «semplice polvere che il vento disperde»8: il giudizio di Herder si accanisce in particolar modo contro Hume, al quale rinfaccia di aver inteso la storia come un «romanzo filosofico», dando una lettura arbitraria degli accadimenti storici.

Se in Ancora una filosofia della storia l’unità del processo è garantita dal parallelismo tra le varie fasi della vita e quelle della civiltà, nelle Idee essa è garantita dal fatto che ciascun popolo che fa irruzione sullo scenario storico rappresenta una particolare determinazione del concetto caleidoscopico e polimorfo di «umanità» (Menschheit), la cui piena realizzazione viene ad essere per Herder l’obiettivo a cui mira la storia nella sua corsa incessante: «l’intera storia dei popoli prende l’aspetto di una scuola di emulazione per conquistare la più bella corona dell’Umanità e della dignità umana»9. Così intesa, la storia è il processo tramite il quale il genere umano realizza appieno la propria umanità, arricchendosi via via dei caratteri che vengono incarnati dai vari popoli e dalle loro diverse culture, ai quali Herder riconosce – col preciso intento di opporsi agli Illuministi – pari dignità e importanza. Ogni civiltà, in quanto complesso dei diversi modi di sentire, vedere, giudicare, parlare e agire, crea i suoi ideali collettivi o le sue mete ideali, i quali costituiscono e caratterizzano quella particolare civiltà in un certo modo: la conseguenza che ne discende è che ciascuna civiltà può essere veramente compresa e giudicata secondo la propria scala di valori, le sue regole di pensiero e d’azione. Per questa via, Herder si propone di salvare le singole individualità – sia le nazioni, sia le epoche – che si manifestano nel corso della storia, mettendo in luce come ciascuna età formuli un determinato giudizio storico che, proprio in quanto frutto di quell’età specifica, non può avanzare alcuna pretesa di validità universale. Dunque la pretesa dei philosophes di giudicare le civiltà, le epoche storiche, i personaggi secondo leggi generali e principi universalmente validi è il frutto di una violenza concettuale che impiega l’universalismo come vernice per mascherare un particolarismo etnocentrico. Un giudizio alquanto simile a quello di Jacob Burckhard, il quale etichetterà l’approccio storico fatto valere dall’Illuminismo come una forma di «impazienza retrospettiva»10, pronta a sacrificare una dinastia di faraoni d’Egitto, pur di giungere al governo liberale del re Amasi, più consono con il suo modo di sentire. Ciò non di meno, tutte le culture, in definitiva, presentano secondo Herder un’identità originaria, perché tutte sono ugualmente espressione dell’uomo e dell’umanità: in particolare, numerosissimi e incredibilmente diversi tra loro sono gli apporti che ciascun popolo ha dato alla determinazione dell’umanità e la loro unitarietà è garantita, ancora una volta, dalla Provvidenza divina operante sotto forma di intelligenza immanente alle forze stesse che promuovono lo sviluppo storico. Nei successivi Briefe zur Beförderung der Humanität (1793), il nostro autore declinerà in modo nuovo ma, a ben vedere, coerente con le Idee, il tema dell’umanità: quest’ultima, man mano che la storia avanza, tende sempre più a dispiegarsi, diventando un ideale a cui tendere e, insieme, un fatto che va sempre più concretizzandosi; intesa come norma e storia insieme, l’umanità viene a rappresentare la sintesi suprema dei più puri valori etico-religiosi, quali l’amore, la libertà, la giustizia e la ragione. La conseguenza – peraltro già tutta presente nelle Idee – è che nel concetto di umanità si stabilisce un’identità fondamentale fra tutte le culture e fra tutti i popoli, i quali costituiscono nel loro complesso quella che saremmo tentati di definire l’unica razza esistente, quella umana, alla luce del fatto che Herder rigetta senza remore il concetto stesso di razza applicato alle diverse genti. Nella storia, non meno che nella natura, l’esistenza e la permanenza di una realtà si fonda su una sorta di perfezione specifica, consistente nello stare tra i due limiti di un maximum e di un minimum: ogni qual volta una civiltà è scesa sotto il minimum e si è alzata sopra il maximum, è andata incontro al suo superamento, che si configura sempre non come sparizione, bensì come rinascita in una nuova civiltà. In questa prospettiva, l’umanità viene a identificarsi con la legge della «ragione e dell’equità», che – già in un saggio del 1785 intitolato Nemesis – Herder esprime simbolicamente con la figura della Nemesi, giungendo a scoprire che essa è non la vendetta (secondo una traduzione letterale del termine greco) ma, piuttosto, la giustizia, la necessaria sanzione degli atti umani secondo un principio di equilibrio. La nemesi, che allo sguardo miope degli uomini pare un’imperscrutabile forma di vendetta, è piuttosto la dea che vigila che non avvenga nessun eccesso, dinanzi al quale essa gira la ruota nella direzione opposta per ripristinare l’equilibrio infranto. Scrive nelle Idee il nostro autore:


«nella natura delle cose domina una legge del compenso, per cui non è possibile turbare un equilibrio politico senza doverne pagare le conseguenze; non è possibile un eccesso di potenza che non rechi in sé il principio della propria rovina»11.


Questa legge della «ricompensa e punizione» (Wiedervergeltung), viene significativamente equiparata alle leggi del moto dell’urto tra i corpi, rimandando alla natura; non si dimentichi che la nemesi e la «teodicea», col loro imponente tentativo di rimuovere l’accidentalità dall’accadere storico, sono i due grandi ingredienti di ogni filosofia della storia.

S’è accennato a come, nella prospettiva herderiana, tanto la natura quanto la storia siano rette dalle leggi divine: il nostro autore insiste molto sulla continuità tra storia naturale e storia umana, precisando come quello che va dalla formazione dell’universo alla storia degli uomini sia, se letto con gli occhi della ragione, un unico processo storico. Per quel che riguarda la storia naturale, esiste secondo Herder – il quale sostiene la fissità delle specie – un «prototipo», una forma originaria fondamentale, che si ripresenta in tutte le tappe dello sviluppo dei corpi: i diversi fenomeni naturali (inorganici, organici, animali) non sono che complicazioni sempre maggiori di quell’unico prototipo, in modo che le diverse specie vegetali e animali possano essere collocate su un’unica scala evolutiva che culmina nel corpo umano; questo punto è di capitale importanza per far luce sulla concezione herderiana della storia, intesa quasi naturalisticamente come un organo vivente che nasce, cresce e si sviluppa unitariamente pur nelle sue diverse parti culminando nel pieno dispiegamento dell’umanità. Come sottolinea Valerio Verra, nelle Idee si intrecciano armonicamente motivi organicistici di marca leibniziana e istanze naturalistiche di impronta spinoziana12. Assai significativo è, a tal proposito, l’insistere del nostro autore sull’influenza che il clima, il territorio e, più in generale, la natura esercitano sullo sviluppo storico e sulla vita di un popolo, pur senza far professione di determinismo biologico: non è certo un caso che le Idee si aprano con un’ampia digressione sulla posizione della terra nel cosmo; una digressione nella quale il nostro autore si sofferma diffusamente anche sulla posizione dell’uomo, definendolo – kantianamente – un essere mediano, che gode di doppia cittadinanza nella misura in cui è un animale fra i tanti (legato alla terra e ai bisogni materiali) e, al tempo stesso, in forza dell’immortalità, della libertà e della razionalità che lo contraddistinguono, è destinato a una più alta dimora. Tra l’uomo e gli altri animali, avverte Herder, c’è continuità: tuttavia, mentre gli animali trovano su questa terra la loro perfezione, grazie ai loro sensi acutissimi e ai loro istinti infallibili, l’uomo può realizzarsi solo imperfettamente su di essa, segnalando già con questa inaggirabile imperfezione la più alta dimora a cui è destinato. Il linguaggio, la ragione, la libertà, la mano e la stazione eretta sono altrettante prove di ciò.

Qualche cenno merita anche la polemica sulla filosofia della storia che vide contrapposti Herder e Kant: quest’ultimo, quando lesse la prima parte delle Idee, non nascose le sue riserve e scrisse, sulle pagine della «Jenaische Allgemaine Literaturzeitung» del 1785, una recensione piuttosto critica dell’opera, prendendo di mira l’impiego herderiano delle immagini a scapito dei concetti, le tesi sull’immortalità, il dissolvimento dell’individuo nella vicenda dell’umanità; a queste critiche, Herder risponderà a tono nella seconda parte delle Idee, mostrando come l’accusa di aver sacrificato l’individuo all’umanità possa essere rivolta allo stesso Kant dell’Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico (1784), opera in cui il filosofo di Königsberg sostiene che tutte le disposizioni umane possono svilupparsi completamente solo nella specie. E, a sua volta, Herder attacca Kant – pur senza fare il suo nome –, capovolgendo la nota tesi kantiana secondo cui «l’uomo è un animale che, quando vive tra altri del suo stesso genere, ha bisogno di un padrone»13: l’uomo che ha bisogno di un padrone è un animale e la storia ci insegna che, a differenza di quel che crede Kant, lo Stato non è la condizione ultima della perfetta felicità degli uomini, come appare evidente nel caso dei Greci, che pur non avendo avuto uno Stato raggiunsero una felicità decisamente più alta rispetto alla nostra. Questo punto è cruciale, perché adombra meglio di ogni altro la lontananza che separa il nostro autore dal panorama illuministico: egli vede nello Stato un’istituzione fredda, astratta e artificiosa, alla quale preferisce di gran lunga la vitalità organicistica e spontanea della concreta vita dei popoli e delle nazioni. Per quel che riguarda la concezione della storia, pur rigettando l’«abderitismo» di Mendelssohn, che riduceva la storia a guazzabuglio caotico di accadimenti sconnessi tra loro, Herder non accetta neppure la filosofia della storia kantiana, ai suoi occhi colpevole di leggere illuministicamente tutte le epoche storiche in funzione di quella attuale, intesa come più evoluta e razionale.

Kant sottopose a critica, sempre sulle pagine della «Jenaische Allgemaine Literaturzeitung», anche la seconda parte delle Idee, soffermando la sua attenzione sullo stile di Herder – degno d’un poeta più che di un filosofo –, che risolve in immagini e in allegorie ciò che invece richiederebbe l’impiego di concetti. In particolare, il pomo della discordia sembra ora essere il problema della felicità, per il quale i due autori prospettano soluzioni diverse, se non antitetiche: com’è noto, nella prospettiva kantiana la felicità viene ad essere un qualcosa di secondario e integrativo rispetto al valore dell’esistenza umana; dal punto di vista herderiano, invece, la felicità assume un ruolo egemonico, includendo uno sviluppo armonico di tutte le disposizioni umane governato direttamente dalla divina Provvidenza.




2. Il mondo dei Greci


Noi vogliamo imparare ad apprezzare i Greci, senza diventare perciò Greci noi stessi14.




Nella terza parte delle Idee, comparsa nel 1787, dopo una rapida analisi del mondo orientale e di alcune altre grandi civiltà (i Cartaginesi, i Fenici, gli Egiziani, i Persiani, ecc.), è sviluppato il confronto herderiano con la civiltà greca, al quale s’accompagna un’attenta disamina del concetto di Humanität. Ciò che contraddistingue il mondo orientale è la sua grande staticità, una staticità a causa della quale, dice Herder, «si è arrestato lo sviluppo di tutte le arti e le scienze»15 e ogni cosa è rimasta sospesa come in un «sonno invernale, fermandosi allo stato dell’infanzia»16. Col solito interesse per l’aspetto morale e, congiuntamente, per le influenze climatiche e territoriali, Herder spiega che il mancato passaggio alla giovinezza nel mondo orientale deve essere posto in relazione con la morale di quei popoli, poco favorevole a mutamenti d’ogni sorta e al confronto con le altre civiltà, e con la posizione geografica particolarmente isolata. Come in Ancora una filosofia della storia, il mondo orientale viene assimilato all’infanzia dell’umanità. È particolarmente significativa l’insistenza herderiana sul tema della staticità orientale, un tema che ritornerà – seppur declinato diversamente – in Hegel, ad avviso del quale «l’elemento stazionario» (das Statarische) è la cifra degli imperi asiatici, e in Marx, che vede nel «modo di produzione asiatico» la staticità per eccellenza, rispetto alla quale la storicità non poteva essere introdotta se non tramite la violenza coloniale.

Ciò che invece contraddistingue il mondo greco è il movimento, il suo incessante sviluppo da una fase all’altra: «fin dai tempi antichi qui tutto è in movimento»17. La Grecia, nella prospettiva herderiana, viene a coincidere col mattino, in cui sorge il sole, e con una «bella giovinezza»18 caratterizzata da quella «gaiezza giovanile»19che è il momento più incisivo per la Bildung dell’umanità. La grandezza dei Greci è in buona parte dovuta al fatto che essi – a differenza dei popoli orientali – accolsero con profitto gli apporti culturali provenienti da altri popoli, il che rimanda a sua volta alla particolare configurazione territoriale della Grecia: lambita ovunque dal mare e ricca di un pulviscolo di isole, era una terra particolarmente idonea a ricevere gli influssi di altre culture e a favorire una proficua circolazione di idee. Come scrive Herder, «sulle isole, penisole e coste, meglio disposte, era sorto un maggior spirito di iniziativa e una civiltà più libera di quelle che non fossero potute sorgere nella terra ferma sotto il peso di antiche leggi uniformi»20. Affiora qui, ancora una volta, l’attenzione herderiana per l’ambiente e per il territorio.

Assimilando la Grecia a un «bel giardino»21 che diede i frutti più splendidi in ogni ambito (in seguito, portando avanti la metafora naturalistica, si dirà che la penisola italiana era «una serra di una meravigliosa fioritura»22), Herder prende in esame alcuni di quei frutti, a partire dalla mitologia, dalla lingua e della poesia dei Greci. Tenteremo di fornire un affresco generale della lettura herderiana del mondo greco, per poi soffermarci più diffusamente sul posto che ad essi il nostro autore assegna nella sua filosofia della storia.

L’analisi herderiana dalla mitologia, dalla lingua e della poesia greche può essere compendiata in questo encomio, con cui il nostro autore apre la sua trattazione dell’argomento: «la lingua greca è la lingua più colta del mondo, la mitologia greca è la mitologia più ricca e più bella che si trovi sulla terra e la poesia greca, infine, è forse la poesia più perfetta della sua specie»23; egli si sofferma diffusamente soprattutto sulla mitologia greca che, nata dall’incontro fortunato di miti e leggende provenienti dai popoli più disparati, è confluita mirabilmente nella poesia di Omero, del quale vengono tessute le lodi: vero e proprio «dono della civiltà, di cui nessun altro popolo può vantare l’uguale»24, Omero occupa nella trattazione herderiana una posizione assolutamente centrale, e non solo nelle Idee. Infatti, già nel Versuch einer Geschichte der lyrischen Dichtkunst (1766), nel tentativo di individuare il momento iniziale e genetico della poesia lirica e, più in generale, di ogni realizzazione umana, Herder aveva distinto tra il «principio effettivo» (Ursprung) e l’«inizio cronologico» (Anfang), ravvisando in Omero l’Anfang ma non l’Ursprung della poesia: infatti, Omero rappresenta sì, nella mentalità collettiva già a partire dai Greci, il momento in cui la poesia è stata vista nascere, ma non bisogna dimenticare che essa fu preceduta da canti e leggende anteriori. Questa, che a tutta prima potrebbe sembrare una divagazione oziosa, è in realtà la significativa testimonianza del fatto che Herder, già nel 1766, volesse evitare le idealizzazioni dei Greci che andavano sempre più diffondendosi ai suoi tempi: se poi ci sia riuscito o meno, è un problema su cui torneremo più avanti.

Ritornando alle Idee, il nostro autore, dopo aver esaminato la mitologia, la lingua e la poesia dei Greci, passa a considerare le loro arti: anche in questo campo, essi hanno realizzato una fioritura magnifica, favoriti da una religione che tendeva a manifestarsi in realizzazioni artistiche formidabili quali i templi e trovando in Fidia l’equivalente di ciò che Omero rappresentò per la poesia epica. In Grecia l’arte potè fiorire splendidamente anche per il fatto che gli Stati ricorsero ai più grandi artisti per realizzare le loro opere e per il fatto che l’animo greco, sotto il «cielo sereno» e azzurro dell’Ellade, era naturalmente predisposto alle arti.

Per quel che riguarda lo Stato – posto che, per le poleis, sia lecito usare tale espressione – e le decisioni politiche, che non di rado venivano prese dopo aver ascoltato il responso degli oracoli, i Greci commisero certo molti errori, i quali debbono tuttavia essere letti come altrettanti «tentativi della giovinezza che per lo più impara a diventare saggia soltanto a sue spese»25.

Herder si concentra poi sulla filosofia greca, la quale, benché rivolta soprattutto all’uomo e alla morale, «ha cominciato a lavorare su tre argomenti che difficilmente potevano trovare altrove un’officina così adatta: il linguaggio, l’arte e la storia»26. Paradigmatica è, in ambito filosofico, la figura di Socrate, che riportò la filosofia dal cielo alla terra, facendo di essa un sapere essenzialmente dell’uomo e per l’uomo e ponendosi come insuperabile modello di umanità; e, proprio in riferimento alla figura di Socrate e alla sua tecnica maieutica, oltre che ai fenomeni della guerra e dell’efebato, Herder cerca di render conto di quella «perversione di costumi»27 che fu, ai suoi occhi, l’amor socratico.

Nella sua trattazione del pensiero greco, il nostro autore lascia inoltre affiorare una tesi che, a tutta prima, non può non suonare strana: «la filosofia della storia ha come sua sede precipua la Grecia, perché propriamente soltanto i Greci hanno storia»28. Un’affermazione che suona strana soprattutto alla luce delle tesi di Löwith, secondo le quali i Greci, intendendo la storia come guazzabuglio caotico di accadimenti sconnessi tra loro, non l’avrebbero mai sottoposta a interpretazioni filosofiche tali da rinvenire in essa un senso. In particolare, svolgendo alcune considerazioni sullo sviluppo storico dei Greci, dalle origini fino a quella decadenza che avrebbe portato il Geist greco a migrare a Roma, Herder individua la grande cesura nelle Guerre persiane, che, se osservate con la lungimiranza propria del filosofo della storia, già rivelano il germe della futura decadenza, nella misura in cui, tramite esse, venne contrabbandato l’amore per la ricchezza e per il lusso, che fino ad allora erano, se non sconosciuti, certamente poco noti ai Greci.

Mi si scuserà se non mi sono dilungato nell’esposizione delle realizzazioni culturali, storiche e politiche dei Greci: ad esse Herder dedica molte pagine, assai pregevoli dal punto di vista artistico e interessantissime per chi voglia conoscere meglio i Greci. Ciò su cui invece vorrei soffermarmi è quello che, nella trattazione herderiana, mi pare un vero e proprio enigma: il posto che il nostro autore assegna ai Greci nella sua filosofia della storia. Abbiamo visto in precedenza come quella herderiana sia una filosofia della storia organicistica, che tende a risolvere lo sviluppo storico dei singoli popoli e delle singole civiltà come altrettante tappe – tutte ugualmente importanti e con pari dignità – del più generale sviluppo dell’umanità. Eppure, con la trattazione della civiltà greca, Herder sembra palesemente contraddire i propri presupposti, nella misura in cui assegna ai Greci una posizione che non esiterei a definire privilegiata rispetto a quella assegnata a ogni altra civiltà. Egli è pienamente cosciente della contraddizione in cui immediatamente precipiterebbe qualora compisse un’operazione di questo genere: la sua filosofia della storia si rivelerebbe viziata dall’inaggirabile contraddizione di teorizzare la pari dignità tra i popoli e, al tempo stesso, di assegnare la «palma d’oro» a uno di essi; quest’ultimo aspetto altro non sarebbe se non una smentita della presupposta uguale importanza di ogni civiltà e una ricaduta nei pregiudizi di marca illuministica. Ben consapevole di ciò, egli cerca in ogni modo di non cadere in questo errore, che però è sempre in agguato e che non esita ad affiorare nella trattazione herderiana: in generale, si può dire che essa oscilli costantemente tra il tentativo di leggere i Greci come mero momento dell’universale sviluppo dell’umanità e l’opposta tendenza a idealizzarli come paradigma autentico e supremo di esistenza umana a cui guardare con nostalgia. Dunque, la lettura del popolo greco come una tappa tra le altre di quel processo unitario che porta al progressivo dispiegarsi del concetto di umanità, s’accompagna, in Herder, alla concezione dei Greci come modello di un’umanità idealizzata che è insieme oggetto di ritorno nostalgico e di costruzione progettuale del futuro; la conseguenza, inevitabile e contraddittoria, è che i Greci furono più umani di noi ed è ad essi che dobbiamo tornare; in questa maniera, il futuro dell’umanità sembra paradossalmente collocarsi alle sue spalle.

Accostandosi all’esperto botanico, che può dire di conoscere una pianta soltanto quando ne ha contemplato l’intero ciclo di vita, dalla fioritura all’appassimento, Herder dice di voler studiare le tappe della civiltà in maniera organica; ma subito dopo aver svolto questa considerazione cardinale, specifica significativamente che, a rigore, soltanto il mondo greco può essere studiato alla maniera botanica, giacché è il solo, nella storia dell’umanità, ad aver attraversato tutte le fasi, compiendo per intero il proprio ciclo vitale. La prospettiva universalistica di Herder, di questo «morfologo delle civiltà»29, sembra già qui entrare in cortocircuito, soprattutto se si considera che, sulla base di queste premesse, il nostro autore viene precisando che soltanto i Greci hanno storia in senso autentico. Tutti gli altri popoli o sono spariti troppo in fretta o si sono bloccati nello sviluppo (come la Cina), senza poter attraversare tutti gli stadi della vita. Sicché – altra conseguenza degna di rilievo e di meditazione – è solo guardando ai Greci che si possono formulare alcuni principi cardinali della filosofia della storia (tutto ciò che può accadere accade; ciò che vale per un popolo, vale anche per i rapporti tra i diversi popoli che agiscono l’uno sull’altro come forze viventi; la civiltà di un popolo è la fioritura della sua esistenza, il suo modo di manifestarsi bello ma caduco; la saldezza e la durata di uno Stato si fonda su un equilibrio di forze e non sulla massima fioritura della civiltà). Ma – e qui sta il paradosso del punto di vista herderiano – questi principi di filosofia della storia, desunti dal solo mondo greco e, come logica vorrebbe, applicabili soltanto ad esso, vengono di fatto universalmente estesi – nel quindicesimo libro delle Idee – all’intera vicenda storica dell’umanità. Si tratta di una posizione tutt’altro che esente da contraddizioni: com’è possibile che i Greci, che Herder non esita a etichettare come «caso felice»30 – si badi bene al termine «caso» (Fall) – vengano assunti come modello di sviluppo di tutte le civiltà, passate e future? Non si tratta forse di un’evidente universalizzazione del modello greco?

Siamo al cospetto di contraddizioni che, come abbiamo già accennato, almeno in parte non sfuggivano al nostro autore, il quale cercò in più modi, se non di rimuoverle, per lo meno di mitigarle: particolarmente significativa è, in questo senso, la polemica che egli intraprese contro Johann Joaquim Winckelmann, una polemica volta a stigmatizzare la nostalgia che il grande storico dell’arte provava per il mondo greco e per la quale Herder stesso provava un’attrazione che doveva essere tenuta sotto controllo31. Espressioni di «nobile semplicità e serena grandezza», le statue greche ci restituiscono, secondo Winckelmann, l’immagine di un’umanità in pace con se stessa, in una serena compostezza contrassegnata da semplicità, universalità e misura, frutto di un animo lungimirante che tutto abbraccia e nulla esclude, una grandezza serena che è tale poiché di nulla abbisogna. Ciò si traduce nello sguardo di beata introversione con cui - egli nota - queste statue ci osservano, paghe della propria perfezione, in antitesi con la lacerazione che caratterizza noi uomini comuni; esse sono del tutto transumanizzate, raffigurano un’umanità che non è in lotta con le proprie passioni, ma che le ha già sopite e che alberga in se stessa una perfetta conciliazione di finito e infinito (secondo la definizione di Federico Schlegel: «l’antichità [greca] è compiuta rappresentazione della vita, reale conciliazione di finito e infinito, e, perciò, immune dal loro conflitto»). Questa diagnosi del mondo greco si traduceva immancabilmente nell’auspicio di un ritorno ai Greci e alla loro esistenza, nella consapevolezza che essi rappresentassero insieme l’umanità quale è stata e quale deve tornare ad essere. Un atteggiamento che peraltro non trova in Winckelmann il solo alfiere: sembra piuttosto che tutta l’area tedesca, dall’Età illuministica in avanti, passando per Hegel, Marx, Heidegger e arrivando fino alla «riabilitazione della filosofia pratica» sia vittima di un’irresistibile greco-mania; ammaliati dal loro modo – quasi sempre idealizzato – di intendere l’umanità greca, i pensatori tedeschi non fanno altro che auspicare – in modi e con intenti diversi – un ritorno a quella perfezione originaria. Anche Herder, a mio avviso, cade vittima di questa malia, vivendo però la lacerante esperienza di un’attrazione verso i Greci e di un rifiuto di assumerli come modelli insuperati d’esistenza. Egli rinfaccia a Winckelmann di aver presentato il popolo greco come chiuso in se stesso, senza sottolineare l’eredità che esso ha raccolto da altre civiltà e trascurando l’importanza di altri popoli che stavano fiorendo in contemporanea coi Greci; in questo senso, la teoria winckelmanniana, lungi dall’essere qualificabile come storia in senso autentico, è frutto di una «costruzione dottrinale» che piega la realtà alla propria linea interpretativa. Sbaglia inoltre Winckelmann a pensare che la perfezione greca fosse propria di ogni singolo uomo: è, infatti, celebre l’episodio secondo cui, a chi gli aveva fatto ironicamente notare che i Greci non erano tutti belli e perfetti, ma che erano esistite anche persone quali l’orribile Tersite, Winckelmann rispose stizzito che, in ogni caso, sotto le mura di Troia di Tersite ce n’era uno solo. A questa concezione, Herder oppone quella secondo cui la perfezione greca dev’essere intesa come prerogativa ideale di un popolo più che come effettiva caratteristica di ogni singolo uomo greco; anche alla luce del fatto che Ippocrate ci ha insegnato che anche un popolo bello e fiorente come i Greci conobbe malattie e malanni deformanti. La perfetta umanità greca – che trova la sua massima espressione nella concezione degli dèi come uomini imperituri – dev’essere dunque colta nella sua idealità più che come attributo di ogni uomo greco concretamente esistito.

In realtà, il problema è spostato senza però essere risolto: non meno di Winckelmann, il nostro autore idealizza i Greci e, se anche rivela una maggiore attenzione per le eredità che essi hanno acquisito da altri popoli e le scoperte innovative che altre civiltà fecero a prescindere da quella greca, ciò non di meno il suo giudizio resta fortemente greco-centrico. Un esempio lampante di ciò può essere colto in quanto egli dice dei Romani: «in ciò in cui eccellevano i Greci, i Romani non hanno mai potuto superarli e, viceversa, ciò che era loro proprio, i Romani non l’hanno imparato dai Greci»32; è sì ammessa la grandiosità di altri popoli, ma si tratta pur sempre di una grandiosità che non si eleva agli insuperati livelli di quella greca. Il nostro autore chiarisce l’impossibilità della realizzazione dell’auspicio winckelmanniano di un «ritorno ai Greci»: «noi vogliamo imparare ad apprezzare i Greci, senza diventare perciò Greci noi stessi»; «se dunque non possiamo essere Greci, ci sia concesso almeno di rallegrarci del fatto che una volta ci sono stati dei Greci e che ogni fiore dell’animo umano, e quindi anche questo, ha trovato il suo tempo e il suo luogo per il suo sviluppo più bello»33; ne segue che degli antichi Greci è lecito parlare come del «popolo che essi sono stati un tempo, che ora non sono più e che non saranno mai più»34. Questa posizione, del resto, si accorda perfettamente con le linee generali della filosofia della storia herderiana, secondo cui è esclusa tassativamente la possibilità che ogni civiltà – in quanto connessa al destino di un popolo in un contesto spazio/temporale preciso – possa, per così dire, tornare a fiorire. In questo modo sembrerebbe essere risolto l’enigma della speranza herderiana di un ritorno ai Greci, se non fosse che il Nostro, nell’atto stesso di comunicarci che ogni civiltà vive una volta sola, dichiara anche che le realizzazioni di ciascuna civiltà non vanno mai perdute: anzi, nella misura in cui un popolo ha portato a perfezione una qualche disposizione o una qualche attività, le sue opere restano come modelli e forniscono regole eterne per l’intelletto umano in ogni epoca. Non è certo difficile subodorare come questa precisazione lasci aperta la porta, se non a un ritorno nostalgico ai Greci quali effettivamente furono, almeno a un progetto di riforma dell’umanità in accordo con le insuperabili acquisizioni dei Greci, che costituiscono un’eredità a cui ispirarsi per avere non una nuova umanità greca (come credeva Winckelmann), ma piuttosto un’umanità non inferiore a quella greca.



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1 J.G. Herder, Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit, 1791; tr. it. Idee per la filosofia della storia dell’umanità, Zanichelli, Bologna 1971, a cura di V. Verra, p. 66.

2 J.G. Herder, Reise-Journal, 1769, IV, pp. 465 e ss.

3 Ivi, p. 466.

4 Ibidem.

5 I. Berlin, Vico and Herder: Two Studies in the History of Ideas, 1976; tr. it. Vico e Herder. Due studi sulla storia delle idee, Armando, Roma 1978, a cura di A. Verri, p. 203.

6 K. Löwith, Meaning in History, 1949; tr. it. Significato e fine della storia. I presupposti teologici della filosofia della storia, Edizioni di Comunità, Milano 19794.

7 J.G. Herder, Idee per la filosofia della storia dell’umanità, cit., p. 341.

8 J.G. Herder Provinzialblätter, VII, pp. 300-301, in Johann Gottfried Herder Sämtliche Werke, B. Suphan, et al. (eds.), Berlin 1887.

9 J.G. Herder, Idee per la filosofia della storia dell’umanità, cit., p. 349.

10 J. Burckhardt, Weltgeschichtliche Betrachtungen, 1905; tr. it. Sullo studio della storia, P. Boringhieri, Torino 1958, a cura di M. Montinari, p. 143.

11 J.G. Herder, Idee per la filosofia della storia dell’umanità, cit., p. 271.

12 V. Verra, Introduzione, in J.G. Herder, Idee per la filosofia della storia dell’umanità, cit., p. 25.

13 I. Kant, Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht, 1784; tr. it. Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, in Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, UTET, Torino 1965, pp. 123-139.

14 J.G. Herder, Idee per la filosofia della storia dell’umanità, cit, p. 292.

15 Ivi, p. 279.

16 Ivi, p. 261.

17 Ivi, p. 284.

18 Ivi, p. 281.

19 Ivi, p. 292.

20 Ivi, p. 283.

21 Ivi, p. 286.

22 Ivi, p. 325.

23 Ivi, p. 287.

24 Ivi, p. 291.

25 Ibidem.

26 Ibidem.

27 Ivi, p. 302.

28 Ivi, p. 315.

29 W. Rehm, Griechentum und Goethezeit, Leipzig, 1936, p. 85, traduzione mia.

30 J.G. Herder, Idee, cit., p. 294.

31 Cfr. J.G. Herder, Fragmente, cit., II, 119; IV, 124.

32 J.G. Herder, Idee, cit., p. 341.

33 Ivi, p. 292.

34 Ibidem.

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